Di Charles Stevenson, Inea Lehner e Feroz Khan; traduzione di Simone Innico; l’articolo originale è qui: https://degrowth.info/en/blog/national-liberation-in-palestine-is-an-indispensable-step-towards-degrowth 

Scriviamo queste parole direttamente dall’accampamento studentesco per la liberazione della Palestina presso l’Università Autonoma di Barcellona. Giovedì 30 maggio, l’organo legislativo dell’amministrazione ha approvato il boicottaggio accademico contro Israele. Questo risultato rappresenta solo il prossimo passo in una più ampia campagna per sanzionare Israele per l’interminabile Nakba inflitta al popolo palestinese. Qualunque sia la soluzione a lungo termine per la pace e la giustizia nella regione storica della Palestina, la richiesta palestinese di liberazione nazionale è qualcosa che il movimento per la decrescita deve saper amplificare: tanto in Palestina come altrove, la sovranità politica è una condizione necessaria per la trasformazione economica promulgata dalla decrescita.

Dal 7 ottobre scorso, molta dell’attenzione di noi attivisti si è spostata dalle discussioni sulla trasformazione socio-ecologica per concentrarsi sull’arresto del genocidio in corso. Ed è giusto che sia così, poiché i dati indicano che nessun altro evento del ventunesimo secolo può paragonarsi alla scala delle atrocità subite dal popolo palestinese negli ultimi otto mesi. Chi sostiene la decrescita non può considerare la lotta per la liberazione palestinese una distrazione, ma piuttosto una parte essenziale per raggiungere un futuro giusto e sostenibile per l’intero mondo.

L’ecocidio che si accompagna alla fame imposta e alla violenza a Gaza e in Cisgiordania è ampiamente documentato, così come il costo ecologico delle attività dell’esercito israeliano. Tuttavia, il genocidio in Palestina dovrebbe rimanere al centro delle preoccupazioni nel movimento per la decrescita non tanto per il suo impatto ecologico immediato, ma piuttosto perché, come illustriamo in questo testo, la questione palestinese rappresenta la più grande contraddizione nell’attuale ordine mondiale capitalista.

Gli ultimi otto mesi hanno evidenziato che non viviamo in un ordine internazionale liberale fondato su regole. Al contrario, abitiamo in una biosfera che il capitalismo imperialista sta spingendo verso il collasso. Ovunque nel mondo, la brutalità del nostro sistema economico globale e l’immoralità di chi lo sostiene – in particolare gli Stati Uniti – sono evidenti, ma non altrettanto chiare come nella continua occupazione coloniale e distruzione della Palestina e del suo popolo. Per comprendere perché la resistenza palestinese rappresenta il filo conduttore e l’avanguardia della lotta anti-coloniale oggi, dobbiamo prima capire perché la regione è così cruciale per gli Stati Uniti e le potenze alleate.

La colonizzazione della Palestina è indissolubilmente legata alla storia del sionismo. Questa ideologia è spesso associata a intellettuali come Theodor Herzl, promotore della creazione di uno stato ebraico nel territorio della Palestina. La diffusione dell’ideologia sionista fu storicamente alimentata dalla diffusione dell’antisemitismo europeo, e il progetto stesso della fondazione di uno stato ebraico, fin dal XIX secolo, è stato oggetto di controversie anche all’interno della comunità ebraica. Alcuni dei primi promotori del sionismo nella prima metà del XIX secolo, e in particolare della creazione di un’entità sionista nell’allora Impero ottomano, furono imperialisti britannici non ebrei. La Gran Bretagna sarebbe poi diventata il principale sponsor del sionismo nel XX secolo fino alla creazione dello stato di Israele nel 1948.

Nel suo saggio “Dying to Forget: Oil, Power, Palestine and the Foundations of U.S. Policy in the Middle East”, Irene Gendzier ripercorre la dinamica che ha portato gli Stati Uniti a prendere il posto della Gran Bretagna in quanto principale sponsor del sionismo: nel 1948, l’argomento decisivo contro il sostegno all’autodeterminazione della Palestina fu che la loro vittoria avrebbe incoraggiato l’autodeterminazione araba nella regione, allora in processo di rapida decolonizzazione, mentre schiacciare ogni speranza di liberazione nazionale avrebbe aperto nuovi mercati per le aziende occidentali. In questa logica, Israele è diventato il più importante avamposto dell’impero statunitense in Medio Oriente. Come ha dichiarato Joe Biden famosamente fin dal lontano 1986: “Non c’è niente di cui scusarsi riguardo Israele. Nessuna scusa! Israele è il miglior investimento da 3 miliardi di dollari che abbiamo mai fatto. Se non ci fosse un Israele, gli Stati Uniti d’America dovrebbero inventarlo per proteggere i nostri interessi nella regione.” L’impero globale di cui Biden è ora alla guida ha interessi propri nel territorio della Palestina storica.

Il Medio Oriente non è la regione più martoriata dalla guerra a causa del potere della lobby israeliana negli Stati Uniti, né a causa di antichi odii che occupano l’immaginario dell’orientalismo moderno, ma a causa della centralità polarizzante che occupa nell’accumulazione di capitale su scala globale. L’economia della regione è in gran parte strutturata intorno al petrolio. Utilizzando Israele come una base militare efficace negli ultimi 70 anni, gli Stati Uniti garantiscono l’accumulo di capitale fossile – denominato in dollari statunitensi e spesso reinvestito nell’economia statunitense, e in particolare nel suo complesso militare-industriale. L’importanza geopolitica del Medio Oriente si riflette nella determinazione degli Stati Uniti a mantenere, anche a costo umano devastante, il suo controllo nella regione – attraverso basi militari in Iraq e Siria, attraverso Israele e attraverso altri alleati dall’Egitto al Golfo Persico. Gli Accordi di Abramo che normalizzano le relazioni tra questi paesi sono solo l’ultimo passo in una pace fredda progettata per stabilizzare l’accumulo di capitale polarizzato. Tuttavia, gli eventi che sono iniziati il 7 ottobre hanno posto un duro freno a questo processo di normalizzazione, e al tempo stesso ri-centrato l’attenzione sulla lotta per la liberazione palestinese.

Dal 7 ottobre ad oggi, Israele ha messo a nudo di fronte agli occhi del mondo la violenza intrinseca in tutto il suo progetto coloniale. Inoltre, ha fallito tutti gli obiettivi che si era prefissati in quanto a sconfiggere i guerriglieri del movimento di resistenza palestinese – la coalizione tra Hamas, Jihad islamica, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e altri. Questi gruppi di resistenza armata possono o meno incarnare i valori che la decrescita sostiene, ma il nostro movimento dovrebbe riflettere sulle note conclusive della Beyond Growth Conference dell’anno scorso a Bruxelles, quando Anuna De Wever ci ha ricordato che “non c’è decrescita senza decolonialità”. Sappiamo che la decolonizzazione non è una metafora. Come tale, non abbiamo il diritto di imporre al popolo palestinese quale forma debba assumere la loro lotta. Questa posizione non significa che dobbiamo condonare ogni singola azione intrapresa in nome della resistenza palestinese, anzi piangiamo la sofferenza di ogni civile in questo conflitto centenario. Tuttavia, se la decrescita deve essere anti-coloniale, allora essa deve necessariamente mostrare la sua solidarietà alla lotta per la liberazione nazionale palestinese.

Perché la liberazione nazionale? Innanzitutto, perché questa istanza è fondamentale nella lotta per l’autodeterminazione palestinese. Tuttavia il focus sull’autodeterminazione nazionale non è una coincidenza, in quanto la soddisfazione delle necessità della popolazione locale – in Palestina e altrove – richiede come condizione un controllo autonomo e sovrano sull’economia nazionale. E l’imperialismo non può tollerare questo livello di autonomia, per l’appunto ripetutamente sabotato dalle potenze occidentali. Gli accordi neocoloniali assicurano l’appropriazione della forza lavoro, delle risorse e dell’energia del Sud Globale. Una realizzazione piena della convergenza di sviluppo tra Nord e Sud, per non parlare della pianificazione su larga scala necessaria per la trasformazione socio-ecologica globale, richiede la fine di questo rapporto sfruttatore. In Palestina, la natura della liberazione nazionale è complicata dalla composizione pluri-etnica della società, ma l’importanza di rompere con il colonialismo rimane.

Fred Moten ha descritto il progetto d’insediamento coloniale israeliano in corso come una “diga che blocca il movimento della storia“. Sentiamo che questa metafora cattura la centralità di Israele nella violenza imperiale del mondo. Sin dalla sua creazione, Israele ha sostenuto i gruppi della destra repressiva in ogni angolo del pianeta, dalle Contras in Nicaragua e Pinochet in Cile, a Mobutu nell’attuale Repubblica Democratica del Congo. Inoltre, Israele sperimenta le sue tecnologie repressive nel “Laboratorio Palestina” e le esporta verso regimi neo-fascisti. I funzionari israeliani si esprimono regolarmente in un discorso che raffigura il progetto israeliano come un “avamposto della civiltà occidentale in una regione barbarica”. Proprio come Israele è il perno dell’imperialismo statunitense in Medio Oriente, vediamo come l’impero statunitense siano uno dei principali ostacoli strutturali alla trasformazione socio-ecologica globale. Consideriamo la resistenza palestinese, e la sua rinnovata richiesta di liberazione nazionale, come una minaccia profonda allo status quo e un passo indispensabile verso la nostra liberazione collettiva.

Molte voci tra chi promuove la decrescita esprimono anche il supporto per un cessate-il-fuoco a Gaza, ma un cessate-il-fuoco non fornirebbe soluzioni durature all’interminabile Nakba in Palestina. Il nostro movimento deve saper amplificare l’appello per le liberazioni nazionali e saper solidarizzare con quella lotta – a prescindere dall’essere d’accordo o meno con le dottrine promulgate da chi lotta per quella causa in questo momento storico. Sosteniamo la resistenza contro il progetto coloniale sionista, perché, come ha detto Nelson Mandela: “è l’oppressore che definisce la natura dello scontro, e all’oppresso talvolta non resta altra scelta se non usare metodi che rispecchiano quelli dell’oppressore. Ad un certo punto, si può solo rispondere al fuoco con il fuoco”

Come sostenitori della decrescita, in quanto membri di organizzazioni eco-socialiste, del corpo studentesco e di ricerca, esigiamo un boicottaggio della complicità accademica con le istituzioni israeliane. Esigiamo un immediato cessate-il-fuoco e la fine del genocidio. Ed esigiamo la liberazione nazionale per la Palestina. Fino a quando le nostre richieste non saranno soddisfatte, continueremo a lottare nei corridoi delle istituzioni complici e a bloccare gli ingranaggi di questo sistema di oppressione. Prendendo ispirazione dalle compagne e dai compagni di tutto il mondo, rispondiamo alla chiamata del popolo palestinese martirizzato e ribadiamo che la nostra è una lotta per la vita: ogni Hammam Alloh Medical Tent, ogni Refaat Al-Areer Library, ogni Hind’s Hall sono espressione della nostra umanità condivisa e della nostra convinzione che l’impero cadrà e che la Palestina sarà libera.

Foto: accampamento palestinese allo UAB. Fonte: Feroz Khan.

Charles Stevenson è dottorando presso l’Università Autonoma di Barcellona e sta conducendo una ricerca sulla macroeconomia di una transizione europea verso la decrescita, oltre a essere un ecosocialista focalizzato sulla strategia politica. Twitter: @disobedientnerd.
Inea Lehner è educatrice e organizzatrice di giorno nel progetto ecosocialista anti-imperialista di Climate Vanguard, e aspirante rivoluzionaria contadina di notte. Twitter: @inealehner.
Feroz Khan è dottorando presso l’Università Autonoma di Barcellona, ricerca con focus su disastri, decrescita e politica delle trasformazioni ecosociali nel Nord e nel Sud globali, ed è attivamente impegnato con il collettivo UAB Accio Per Palestina. Twitter: @khanslate.