[da il manifesto e da Comune-info] Strade, piazze, università, spazi sociali, culturali e di economia sociale: a Budapest la quinta Conferenza internazionale sulla decrescita ha mostrato non solo che quello della decrescita è un movimento sociale e accademico che non smette di crescere, ma che esistono già tanti modi diversi di vivere che rifiutano il dominio del profitto. Si è discusso di energia e di cibo, di genere e di conflitti ambientali, di rapporti tra il nord e il sud del mondo e di urbanistica, ma anche di migrazioni, di reddito di cittadinanza e di movimenti sociali. Per questo politica e media che pensano alla decrescita ancora come recessione sembrano sempre più ridicoli.
di Silvio Cristiano (Università Iuav di Venezia), Viviana Asara (Vienna University of Economics and Business), Federico Demaria (Universitat Autonoma de Barcelona), Giacomo D’Alisa (Universitat Autonoma de Barcelona), Barbara Muraca (Oregon State University)

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Nelle ultime settimane, mentre l’Istat pubblicava le proiezioni al ribasso del Pil italiano, diversi media lanciavano l’allarme della stagnazione, e alcuni – più o meno consapevolmente in errore – si riferivano allo spettro della decrescita. Eppure, con beffardo tempismo, proprio in quei giorni si stava concludendo con successo a Budapest la Quinta Conferenza Internazionale sulla Decrescita per la Sostenibilità Ecologica e l’Equità Sociale, un evento che speriamo possa fornire lo spunto per chiarire e riflettere sul significato della parola “decrescita”, tanto discussa all’estero quanto troppo spesso fraintesa e bistrattata in Italia.

Dalla Francia alla Catalogna, dalla Germania agli Stati Uniti, dal Canada all’India, chi parla di decrescita – né “felice” né “infelice” – invoca non il contrario della crescita del prodotto interno lordo, bensì un approccio completamente alternativo al dogma della crescita-ad-ogni-costo.

Quella di Budapest è stata la quinta edizione di un ciclo di conferenze che dal 2008, dopo Parigi, Barcellona, Venezia, Montreal e Lipsia, offrono il contesto adatto per discutere e scambiare risultati scientifici ma anche “buone pratiche” all’interno di un movimento sociale-accademico che non smette di crescere. Dal 30 agosto al 3 settembre, a Budapest sono affluiti oltre seicento tra accademici e attivisti provenienti da tutti i continenti, mentre in città in migliaia stavano animando la prima “Settimana della decrescita” per le strade, negli spazi sociali, culturali e di economia sociale che a Budapest hanno dato vita a una serie di esperienze umane e politiche basate sul vivere la società in un modo altro, al di fuori della logica del profitto. Perché uscendo dalla nostra penisola il concetto di decrescita è piuttosto e innanzitutto una proposta politica per affrontare le sfide dei cambiamenti climatici e della giustizia sociale e ambientale, ben diversa quindi da quell’attitudine più o meno naif con la quale viene spesso liquidata in Italia. Nella cinque giorni ungherese è stato ribadito come la decrescita sia prima di tutto un tentativo di ri-politicizzare i discorsi sulla sostenibilità, concetto troppo spesso distorto nelle sue declinazioni di “crescita verde”, “economia verde” o “sviluppo sostenibile”, e affidato al mito di una maggiore efficienza tecnologica e mercificazione della natura, a mascherare il fatto che una crescita infinita, oltre che non sostenibile, non è neanche fisicamente possibile su un pianeta finito.

Nella sessione introduttiva della conferenza, Federico Demaria (ricercatore dell’Università Autonoma di Barcellona e del collettivo accademico catalano Research & Degrowth) ha domandato alla platea se la decrescita possa costituire “un progetto politico di sinistra per una trasformazione socio-ecologica della società”. Come ha spiegato Barbara Muraca (professoressa all’Oregon State University), la crescita ha ormai esaurito la sua funzione di “stabilizzazione dinamica della societá” (concetto caro ai sociologi) o di “pacificatore sociale” che aveva un tempo nelle socialdemocrazie europee. La dipendenza della nostra società dalla crescita in quello che ormai anche il Fondo Monetario Internazionale ha dipinto come uno scenario di “stagnazione sistemica” sta minando le vere basi di riproduzione socio-economica, politica e culturale delle nostre società contemporanee. I limiti della crescita non sono solo di tipo ecologico, ma anche sociale e culturale.

La conferenza di Budapest ha affrontato un vasto spettro di tematiche: si è discusso di energia e di produzione alimentare, di stato sociale e di questioni di genere, di conflitti ambientali e di rapporti tra il nord e il sud del mondo, di urbanistica e di alternative post-capitaliste, di reddito di cittadinanza e di movimenti sociali. Nella città che esattamente un anno fa chiuse la stazione ferroviaria di Keleti per chiudere ai profughi di guerra le porte della fortezza Europa, si è discusso anche di migrazione denunciando i respingimenti.

Qualcuno ha ravvisato nei discorsi sulla decrescita una possibile strada verso il processo di ricomposizione della sinistra, pur all’interno delle varie diversità, come notato da Mauro Trotta in una sua recensione del saggio “Vie di fuga” di Paolo Cacciari (Marotta&Cafiero ed., qui acquistabile a 1 euro) apparsa sulle pagine del manifesto. Una strada che a sinistra potrebbe effettivamente valere la pena se non altro di discutere in modo ampio e consapevole (e, dopo buoni accenni e qualche svista, per la sua storia e il suo impegno presente invitiamo anche lo stesso manifesto ad ospitare un dibattito sulle sue pagine).

Dopo il successo delle sue dieci edizioni, l’imminente pubblicazione in italiano del volume “Decrescita: un vocabolario per una nuova era” (a cura di G. D’Alisa, F. Demaria e G. Kallis per Jaca Books) con contributi di più di cinquanta autori e la significativa prefazione di Luciana Castellina, potrebbe costituire un prezioso punto di partenza in questa direzione. Occorre chiarire che la decrescita non significa recessione o stagnazione (leggi anche l’articolo di Serge Latouche Diventare atei della crescita e Slump. La crescita non tornerà mai più di Franco Berardi Bifo), ma una proposta per il necessario progetto di riforma radicale delle nostre società contemporanee e delle loro istituzioni fondanti, che possa far fronte alla crisi multidimensionale (ambientale, politica e economica) che stiamo vivendo.