Condivido la recensione di Francesco Bellino, pubblicata su Avvenire il 9 gennaio, dell’ultimo libro del filosofo coreano Byung-chul Han: Vita contemplativa o dell’inazione (nottetempo, Milano, pagine 145, euro 15,00). Mi è parso un testo molto interessante e molto in linea con la filosofia della decrescita contro l’utilitarismo, la produttività, l’interesse personale, a favore invece del “reincanto del mondo”: egli infatti riconosce nel “non fare” ciò che dà forma all’humanum e impedisce la riduzione dell’uomo alla pura funzione. Ne consiglio caldamente la lettura.
Nella sua ultima raccolta di saggi, tempestivamente tradotta in Italia, Vita contemplativa o dell’inazione (nottetempo, Milano, pagine 145, euro 15,00), il filosofo coreano, docente alla Universität der Künste di Berlino, Byung-chul Han ci offre non solo una chiara e lucida analisi della nostra attuale condizione umana, ma anche alcune proposte terapeutiche per curare i nostri malanni.
Si apre questa raccolta con una frase di Paul Celan: somigliamo sempre più a quelle persone attive che «rotolano, come rotola la pietra, con la stupidità del meccanismo». Percepiamo la vita sempre più in termini di lavoro e prestazione, per cui l’inazione è considerata una carenza. Anche il tempo libero è assoggettato alla produzione, è un derivato del lavoro. Scompare il tempo davvero libero, affrancato dall’ordine del lavoro e della produzione. Al tempo libero «mancano sia l’intensità vitale, sia la contemplazione. È un tempo che ammazziamo affinché non emerga la noia». Aggiungerei anche la vacanza che si definisce negativamente in rapporto all’occupazione, come il tempo vacans (ha la stessa radice di vacuus, vacuo) vuoto, senza occupazioni.
Vita intensa significa soprattutto più prestazione o più consumo. Byung-chul Han ci ricorda, invece, «che è proprio l’inazione, che non produce nulla, a rappresentare una forma intensa e preziosa della vita». L’inazione dà forma all’humanum: «È l’elemento inattivo del fare a rendere il fare genuinamente umano». Senza un attimo di pausa, di silenzio, senza contemplazione, l’agire sprofonda nell’azione cieca. Di qui nasce «la nuova barbarie». Scrive Byung-Chul Han: «Il silenzio approfondisce la parola. Senza silenzio non c’è musica, solo rumore e baccano. Il gioco è l’essenza della bellezza. Laddove imperversa solo lo schematismo stimolo/reazione, bisogno/appagamento, problema/soluzione, obiettivo/azione mirata, la vita si riduce a sopravvivenza, a nuda vita animale».
L’inazione offre l’energia per costruire la cultura e per non ridurre l’uomo alla funzionalità e all’utilità. Il nocciolo fondamentale dell’inazione è la «libertà da qualsiasi scopo o utilità», che è «la formula basilare della felicità». La libertà dallo scopo conferisce all’esistenza umana «splendore e festosità». Il digiuno, l’ascesi, le pratiche rituali, la mémoire involontaire (Proust), il sogno sono espressione dell’inazione e ci elevano al di sopra della vita intesa come sopravvivenza e bisogno. Lo stile di vita consumistico ci sta facendo perdere la pazienza dell’attesa. Conta solo l’effetto a breve termine, il successo rapido. «Le azioni si accorciano, divenendo reazioni. Le esperienze si assottigliano, si trasformano in eventi. I sentimenti s’impoveriscono diventando emozioni forti o esplosioni d’ira. Non abbiano più accesso alla verità, che si rivela solo all’attenzione contemplativa».
La nostra epoca è un’epoca dell’agire. L’antropocene è il risultato della totale sottomissione della natura all’agire e all’arbitrio dell’uomo. La salvezza della Terra, per Byung-chul Han, dipende da un’etica dell’inazione. «È necessario innalzare il livello dicontemplazione nell’agire, facendo in modo che l’azione arrivi a includere lameditazione». Il tempo si è frantumato, rendendo la vita effimera. Secondo Hannah Arendt,«l’immortalità è fuggita dal mondo». Mancano contenuti simbolici in grado di fissare stabili assi temporali. Nel vuoto simbolico la comunità si frammenta in tanti individui indifferenti. Viene a manca ciò che lega e vincola. Manca il sentimento comune. Essere collegati, connessi non significa essere legati. L’essere è essere insieme. In un serrato confronto con Vita activa di Hannah Arendt vengono annotati alcuni limiti del suo pensiero. Sebbene sia una pensatrice ebrea, la sua filosofia è del tutto priva della dimensione sabbatica. Arendt elimina la dimensione contemplativa anche nel mondo greco. La polis, come è noto, era costituita da tre spazi: oikos, agorà e tèmenos. Non prende in considerazione il tèmenos quale ambito della contemplazione religiosa. La citta greca è impensabile senza l’akro-polis (letteralmente “città alta, sopraelevata”), che era dedicata al divino.
L’immortalità si conquista sul “palcoscenico” della politica, nella sfera dell’agire. La conquista della fama immortale, per Arendt, «è la fonte e il centro della vita activa». L’immortalità, che è il durare e il perdurare nel tempo, non è, però, l’eternità, che trascende sia il tempo sia l’umanità che ci circonda. È la vita contemplativa che ci apre all’esperienza dell’eterno. Anche l’odierna crisi della religione Byung-chul Han non la riconduce semplicemente alla perdita della fede in Dio o allo scetticismo, al materialismo, ma a un livello più profondo, che rimanda alla sempre più diffusa perdita della capacità contemplativa. È l’iperattività con la crescente coazione a produrre che «dissolve l’essere nel processo» e impedisce la vita contemplativa e l’accesso all’esperienza religiosa.