Di Ilaria De March*

Da quasi una ventina d’anni si parla di decrescita come di uno degli approcci più radicali ed efficaci per la  trasformazione socio-ecologica. Tuttavia, nonostante il moltiplicarsi di pubblicazioni ed eventi a tema, il concetto fatica ancora a uscire da una ristretta  nicchia fatta di accademici e di attivisti. 

Nella nostra società esistono infatti diversi ostacoli e fattori di resistenza  alla diffusione delle idee e delle pratiche della decrescita. Questi ostacoli si trovano nelle infrastrutture materiali e istituzionali attorno cui è organizzata la nostra vita sociale e economica, si pensi ad esempio alle città le quali sono organizzate in modo tale da avvantaggiare le automobili  e che di fatto ostacolano le pratiche di trasporto più sostenibili. Un altro ostacolo fondamentale è dato anche dalle strutture dei sistemi di welfare, la cui possibilità di erogare servizi e di mettere in campo  politiche sociali dipende dalla crescita economica.

La resistenza nei confronti della  decrescita proviene anche dai valori e dalle norme sociali dominanti, specialmente da quelli che risultano dall’egemonia del pensiero della crescita economica, che viene prospettata come unico fattore di progresso sociale. La resistenza alla decrescita, nei paesi occidentali, è opposta infine dalle soggettività contemporanee. Il seguente articolo prova a offrire un’analisi dei motivi che stanno dietro alla resistenza delle soggettività contemporanee contro la decrescita, utilizzando alcuni concetti sintetizzati ed elaborati da Gilles Deleuze nel Poscritto sulle società del controllo, specificatamente, nell’interpretazione di Maurizio Lazzarato.

Cosa si intende esattamente con il termine soggettività? Esso fa riferimento all’insieme dei desideri, delle forme di percezione, delle aspirazioni, delle sensibilità e delle pratiche che caratterizzano gli individui all’interno di una società. Nonostante le soggettività all’interno di una società siano molte e non siano omogenee, si possono identificare alcuni tratti comuni. Innanzitutto, nei paesi occidentali con economie altamente industrializzate, le soggettività sono plasmate dal modo di produzione capitalista. Esso, infatti, per assicurare il suo funzionamento, crea istituzioni e strumenti legali che favoriscono il  suo mantenimento e la sua riproduzione, come ad esempio l’istituzione dei mercati finanziari o della proprietà privata.

Il modo di produzione capitalista garantisce il suo funzionamento tramite la “creazione”, intesa come modellazione, di soggettività che introiettano l’immaginario dominante, le norme e la disciplina da esso imposta, come afferma Muraca. Il processo di soggettivazione genera un cambiamento nelle norme socioculturali così come nelle caratteristiche psicologiche delle persone, generando soggettività psicologicamente diverse che sviluppano bisogni diversi.

In generale, il modo di produzione capitalista, che è un sistema che per definizione si costruisce su dinamiche di crescita, genera soggettività caratterizzate dal tratto di desiderare risorse sempre maggiori e a sottoporre le proprie vite a ritmi sempre più veloci. Il capitalismo, infatti, in quanto regime di crescita, presuppone l’esistenza di uno stato futuro caratterizzato da una quantità  di risorse maggiori di quelle disponibili oggi. Allo stesso modo, nella vita di ciascuno di noi, il sé di oggi è visto solo come il predecessore di qualcuno che ha più risorse da ottenere e che ha il bisogno di svilupparsi progressivamente. Secondo Eversberg, la escalation permanente è il tratto caratteristico e l’infrastruttura mentale di base della soggettivazione capitalista.

La soggettivazione post-Fordista e la società di controllo

È importante sottolineare che il modo di soggettivazione capitalista oggi è diverso da quello di  qualche decennio fa, in quanto anche la forma di capitalismo è cambiata. Nel secondo dopoguerra, infatti, la forma di capitalismo dominante nel mondo occidentale era il cosiddetto capitalismo fordista, caratterizzato da una forte industrializzazione e standardizzazione dei processi produttivi e dalla diffusione della cultura del consumo di massa. A partire dagli anni ‘70, si è avuta  la transizione verso il capitalismo post-fordista, una nuova forma di capitalismo caratterizzata da una flessibilizzazione del mercato del lavoro, dall’aumento delle transazioni finanziarie globali, da un aumento della volatilità delle mode nei consumi e dall’avvento dell’ideologia politica del neoliberismo. L’economia post-fordista è un’economia estetica, in cui la produzione di nuove merci e la valorizzazione del capitale non è legata solo all’innovazione tecnica, ma alla creazione di simboli e impressioni sensoriali.

Analizzando la transizione da un punto di vista di dominio e controllo sociale, il passaggio dal fordismo al postfordismo è stato parallelo, a grandi linee, alla transizione dalla società cosiddetta della disciplina a quella del controllo. Come ci ha insegnato Deleuze, mentre nella società della disciplina il potere è esercitato dal controllo dei corpi all’interno della fabbrica, della scuola e della prigione, nella società del controllo la modalità del dominio sociale cambia. Il dominio viene esercitato tramite il controllo e l’influenza sui desideri, le forme di percezione, la sensibilità, il linguaggio e la conoscenza delle soggettività e tutto questo avviene tramite l’utilizzo di tecnologie che operano a distanza (ad esempio la televisione e internet).

Questa forma di potere, meno visibile di quello disciplinare ma più invasivo, influenza e standardizza i desideri tramite la macchina espressiva aziendale. Con macchina espressiva dell’azienda si intendono i simboli, i linguaggi e i mondi creati dalle funzioni aziendali di marketing, comunicazione e design, che mirano a stimolare i desideri del pubblico e sollecitare il consumo. In poche parole, la produzione delle soggettività nella società del controllo non avviene (più solo) tramite la disciplina dei corpi nella scuola o nella fabbrica, ma tramite l’influenza sulle menti e i desideri.

Questa forma di controllo sociale viene esercitata nell’ambito del consumo così come in quello della produzione e del lavoro. Nel primo ambito, l’aumento delle possibilità di consumo offre alle soggettività un range illimitato di prodotti da utilizzare per autorealizzarsi e per esprimere la propria identità creativa e il proprio status sociale.

Nell’ambito del lavoro, il controllo non è solo esercitato dal capo nei confronti del dipendente, ma dal dipendente nei confronti di se stesso. Il dipendente o la dipendente si trasformano in imprenditori di se stessi, impegnati nell’auto-miglioramento e nell’auto-valorizzazione, nel continuo aggiornamento delle proprie competenze per far fronte ad una forte competizione nel mercato lavorativo. Dall’azienda, il dipendente non viene visto come un soggetto integro, ma come un pacchetto di competenze che devono essere continuamente aggiornate con l’obiettivo di aumentare produttività ed efficienza.

La soggettività post-fordista è frammentata, costituita da un insieme di competenze, desideri, informazioni e dati che garantiscono l’accumulazione e la valorizzazione del capitale; è costantemente impegnata a investire nel suo capitale economico, sociale e culturale per raggiungere quella che è definita “la buona vita”, che consiste in uno stile di vita attraente secondo le norme sociali dominanti.

La soggettività post-Fordista vs il progetto della decrescita

L’analisi di questo modo di soggettivazione inizia a rivelare le contraddizioni esistenti tra le soggettività contemporanee, costituite come soggettività orientate alla crescita, e le necessità della decrescita. Il progetto della decrescita prevede infatti la limitazione dei consumi e della produzione, in particolare di quei beni posizionali che sono responsabili di elevate emissioni pro capite, come ad esempio i SUV. La riduzione della quantità e della varietà di prodotti di consumo, che costituisce una delle proposte della decrescita, viene percepita dalle soggettività contemporanee come una minaccia al loro potenziale di autorealizzazione e all’espressione della loro identità creativa. La contraddizione più forte per le soggettività post-fordiste è quindi quella di ritrovarsi a desiderare di meno quando la società è invece impostata strutturalmente su un soggetto che desidera sempre di più.  Alla luce di queste dinamiche, la decrescita, invece di essere percepita come un progetto di emancipazione collettiva, viene percepita come un attacco contro la possibilità di vivere una buona vita e di realizzare la propria identità.

Se le soggettività contemporanee, la cui sensibilità e aspirazioni sono influenzate dalle modalità di potere della società del controllo, oppongono resistenza al progetto della decrescita, può allora iniziare un processo di trasformazione socio-ecologica; è necessario quindi operare sul livello della sensibilità e dei desideri. Tutto ciò suggerisce che occuparsi soltanto delle strutture socioeconomiche e delle politiche pubbliche non è sufficiente per portare avanti la trasformazione radicale e sistemica di cui parliamo. È invece necessario guardare alle soggettività che popolano questo sistema, con le loro aspirazioni e forme di percezione.

Una rivoluzione della sensibilità

Un tipo di società diversa, che non si basa più sullo sfruttamento e la competizione, richiede una trasformazione della sensibilità e dell’estetica dominante, un cambiamento che deve partire dall’auto-trasformazione delle sue soggettività. Per capire questo concetto, possiamo pensare ad esempio alle lotte femministe. Come afferma Soper, il tipo di rivoluzione culturale ed estetica richiesto dalla trasformazione socio-ecologica può essere paragonato, per vastità e profondità, alla rivoluzione culturale portata dai movimenti femministi all’interno della società. I successi nella lotta contro il patriarcato non si sono ottenuti solo tramite politiche pubbliche e riforme, ma tramite una trasformazione culturale e percettiva, che ha generato cambiamenti del sé – talvolta anche molto dolorosi ottenuti a partire da autoriflessioni, modificazioni del proprio modo di concepire la realtà e dei propri desideri.

Questo significa che è necessario prestare maggiore attenzione alla politica culturale della decrescita, per promuovere nuove forme estetiche e simboliche. Ciò implica, ad esempio, creare della resistenza contro le immagini e i mondi creati dalla macchina espressiva delle aziende. Immagini e pratiche che sono state in passato percepite come attraenti, devono essere percepite come ripugnanti, in virtù della loro associazione con l’insostenibilità, la distruzione degli ecosistemi, la tossicità e il rifiuto. Tutto questo deve essere facilitato tramite l’impiego di politiche e iniziative culturali che mirino a sovvertire l’estetica dominante e a offrire nuovi modi di autorappresentazione e di relazione agli ecosistemi. La letteratura offre alcuni esempi, come il concetto di edonismo alternativo di Kate Soper. L’edonismo alternativo sfida l’idea dominante del benessere, sottolineando che rendere i prodotti di consumo sempre più disponibili e accessibili, non è una buona strategia per ottenere una buona vita, ma che al contrario genera forme di alienazione. Per rompere la connessione automatica che esiste tra l’idea di benessere e l’abbondanza materiale è necessario presentare esempi che siano vicini ai drammi quotidiani che le persone vivono. I casi di burnout psicologico, la scarsità del tempo e l’inquinamento sono dei buoni punti di partenza per iniziare una riflessione su ciò che davvero costituisce il benessere e su quali forme di autorappresentazione alternative possiamo sviluppare che siano ecologicamente e socialmente più sostenibili.

(*) Ilaria De March è laureata in Economia Socio-Ecologica all’Università di Economia di Vienna. I suoi interessi di ricerca includono gli ostacoli alla trasformazione socio-ecologica, le teorie dei bisogni, le politiche eco-sociali e l’ecofemminismo.
Questo articolo è stato pubblicato anche su beyondgrowth.it