“Decresci MI: Un incontro per esplorare come la lotta per la decrescita possa incontrare la lotta per il diritto alla casa”

Di Fedrico Arcuri, Karl Krähmer e Carlotta Paglia.

Domenica 29 Settembre, in occasione della Milano Green Week, Associazione per la Decrescita e Movimento per la Decrescita Felice hanno collaborato con alcune realtà milanesi per organizzare un evento di discussione riguardo a un tema caldo in città: la crisi abitativa, intitolato: “crisi abitativa, cause e soluzioni”. 

L’evento prevedeva una tavola rotonda in cui attori e prospettive diverse hanno dialogato sul tema dell’abitare, moderato da Carlotta Paglia di Associazione per la Decrescita, per poi passare a un momento assembleare gestito dalle/gli attivist* di Ultima Generazione. 

La tavola rotonda era composta da:

  • Bruno Cattoli dell’ Unione degli Inquilini di Milano.
  • Angelo Avelli del comitato “Abitare in Via Padova”, attivo nella campagna interassociativa “Chiediamo Casa”.
  • Federico Bottelli, consigliere comunale del PD e membro dei Giovani Democratici Milanesi (GD).
  • Francesca Cucchiara, consigliera comunale di Europa Verde e membra dei Giovani Europesti Verdi (GEV).
  • Karl Krähmer, co-presidente di MDF, ricercatore in geografia e studi urbani a Torino e co-fondatore del primo Community Land Trust in Italia, a Torino.

 Ecco alcuni punti salienti usciti fuori durante l’incontro e riflessioni da parte dellə organizzatorə che vorremmo condividere. 

 

  1. Il diritto alla casa è una lotta sociale ed ecologica, e deve essere un punto di convergenza per creare alleanze politiche

Questo lo spunto offerto in primis dal dialogo tra sindacati degli inquilini e attivisti. Il diritto all’abitare è un diritto primario di ciascun essere umano, derivante dalla innegabile necessità umana di abitare dignitosamente. Quindi, il diritto alla casa deve essere un punto fondamentale di convergenze per tutte quelle formazioni sociali che lottano per un miglioramento delle condizioni sociali a Milano e altrove, per una città più equa e inclusiva.

Il diritto all’abitare ha una forte dimensione di sostenibilità ecologica: tuttə abbiamo diritto a vivere in un intorno sano, sostenibile e vivibile da un punto di vista ecologico. Invece, oggi viviamo in una Milano in cui soprattutto le persone più povere vivono in zone insalubri, con aree inquinate e pochi spazi verdi, mentre solo pochi possono permettersi di vivere in aree urbane verdi e consumare cibo sano e a km0. Soprattutto però, in un mercato immobiliare speculativo come oggi rendere un quartiere più verde e vivibile, con forme di mobilità più sostenibili è una creazione collettiva di valore che inevitabilmente viene appropriata privatamente attraverso l’aumento dei valori immobiliari, portando alla gentrificazione verde. A maggior ragione considerando che spesso il verde viene poi usato come ‘moneta’ sul mercato della competizione tra città per attrarre capitali e/o turist* da fuori, sostenendo dinamiche speculative e di gentrificazione. Queste iniquità sono esacerbate dalla crisi climatica, le cui conseguenze sulla scala urbana sono vissute in modo diverso tra i più ricchi e i più poveri. Poter vivere in un ambiente sano, poter consumare basandosi su produzioni che non devastano l’ambiente devono quindi essere un diritto per cui lottare al pari di diritti sociali come quello dell’abitare. Si potrebbe parlare di un ‘diritto alla città ecologica’. Una tale prospettiva è ovviamente incompatibile con idee come quella di dover costruire massicciamente nuove case per poterne mantenere l’accessibilità. Piuttosto bisogna ragionare su come ne funziona la proprietà come faremo qui sotto. 

È con questa logica che la campagna inter-associativa “Chiediamo Casa” ci invita a supportarli nella loro lotta, fare della loro lotta la nostra lotta. Trovate più dettagli sul loro canale facebook, e su quello dell’associazione Abitare in Via Padova.

 

  1. “Social-washing” e privatizzazione del welfare: Le case popolari, ora, hanno ben poco di popolare.

Francesca Cucchiara e Federico Bottello, consiglierə comunali a Milano, hanno apportato degli spunti interessanti riguardo al problema delle case popolari a Milano. In particolare, Francesca ci ha parlato del fenomeno di Social Washing che ha caratterizzato l’approccio della giunta milanese, ossia un approccio che definisce come “sociale” politiche che in realtà di sociale hanno ben poco, essendo in realtà insostenibili e inaccessibile per fasce di popolazione più marginalizzate. Infatti, le case popolari a milano non sono assolutamente popolari, come raccontatoci da Francesca nel suo ultimo report “Il Business degli Studentati”, scritto con Tommaso Gorini, molti alloggi “sociali”, pur essendo destinati a offrire prezzi calmierati, superano ampiamente le tariffe indicate dalla normativa regionale. Si parla di canoni che sfiorano i 1.300 euro al mese per case destinate a studenti. Al di là del caso dello studentato di Porta Romana, che ha attirato l’attenzione mediatica per i prezzi molto elevati, il vero problema è il sistema generale delle convenzioni per le residenze universitarie, che in molti casi offre posti letto più costosi rispetto al mercato privato, con singole che arrivano fino a 830€ e doppie fino a 600€. Invece di mitigare il caro-affitti, il sistema convenzionato tende quindi ad alzare i prezzi e peggiorare l’accessibilità economica degli alloggi, finendo per essere più vantaggiose per i costruttori e gestori privati che per la collettività. I privati godono di incentivi come la riduzione dei costi di costruzione e volumetrici, ma gli affitti non risultano calmierati. Le agevolazioni urbanistiche e fiscali finiscono per favorire l’uso delle strutture a fini alberghieri, specialmente in periodi estivi, riducendo la disponibilità di posti letto per gli studenti e vanificando l’obiettivo sociale delle convenzioni. Nel report Francesca e Tommaso forniscono alcune idee per affrontare la questione: 

Canoni sociali: chiediamo di modificare la delibera 42/2010, cioè quella che attualmente regolamenta le convenzioni, affinché i canoni di locazione dei posti letto in convenzione siano accessibili, cioè coerenti con il concetto di edilizia residenziale sociale e vincolanti, cioè non modificabili nel tempo se non entro una soglia definita.

Revisione del vincolo di destinazione a servizi: attualmente le convenzioni durano 30 anni, dopodiché lo studentato potrebbe essere trasformato in un hotel nonostante l’operatore abbia beneficiato delle agevolazioni fiscali previste dalla convenzione. Crediamo che questa sia una politica poco lungimirante ed eccessivamente sbilanciata a favore del soggetto privato e che dunque non debba esserci un tale automatismo per cui il gestore possa rientrare nelle piene disponibilità della struttura senza rendere conto al Pubblico.

Realizzazione di nuovi studentati pubblici: crediamo che il soggetto preposto alla realizzazione delle residenze universitarie debba essere il pubblico: lo Stato e gli enti locali attraverso di questo. Il sistema del convenzionamento, che pure può avere degli esiti positivi, è comunque una forma di “ripiego” dovuta all’incapacità del Pubblico di realizzare posi letto a canone sociale. Crediamo quindi che il problema stia anzitutto nella scarsa volontà politica delle istituzioni di rispondere alla domanda abitativa degli studenti che studiano fuorisede, un tema che – lo vediamo dai dati – non è ancora realmente preso in considerazione

Quote definite per il DSU: chiediamo che le regole delle convenzioni per le residenze universitarie prevedendo delle quote distinte per gli studenti inseriti nelle graduatorie per il diritto allo studio (DSU).

Più vincoli per i costruttori: chiediamo di modificare il PGT affinché nella costruzione di uno studentato privato vi sia una quota obbligatoria di alloggi/posti letto a canoni sociali – fermo restando che servono nuovi criteri per stabilire cosa si intenda per “housing sociale” e che “sociale” non può semplicemente significare “sotto il prezzo di mercato”. Inoltre, crediamo debba esserci una chiara distinzione tra convenzionato sociale e convenzionato non sociale, poiché i benefici e le premialità non possono essere concessi a entrambi.

Più trasparenza: oggi nei tariffari online non è chiaro quali siano i posti letto soggetti ascrivibili alla convenzione con il Comune. Chiediamo invece che queste informazioni siano pubbliche e siano riportate sui siti web delle strutture convenzionate.

 

  1. Le prospettive di Post-crescita e Decrescita suscitano sempre più interesse, in contesti sempre più diversi

La sala di Lato B, seppur di piccole dimensioni, era piena. A colpire non solo il numero di persone, ma anche l’entusiasmo con cui persone che hanno approcci politici diversi come attivistə, policy-makers e sindacalistə hanno accettato la chiamata con entusiasmo, curiosi di sapere che cosa potesse offrire la prospettiva di post-crescita all’ormai caldissima questione della crisi abitativa, soprattutto nella capitale lombarda. Questo è un successo che non possiamo ignorare. 

Il potenziale della prospettiva di post-/decrescita nell’unire i “puntini” di diverse crisi eco-sociali, analizzare cause e proporre soluzioni sistemiche non sta passando inosservato. Questo dimostra anche che, come già provato durante la conferenza Beyond Growth a Roma, la decrescita debba “uscire dalla decrescita”, mettersi in gioco in, a volte faticosi, ma efficaci incontri  con attori diversi, mettere in pratica la propria analisi sistemica del capitalismo. Dobbiamo quindi uscire dalla più stretta comunità decrescente, che ha avuto finora un impatto politico e mediatico alquanto basso.

 

  1. De-mercificare l’abitare: convergere su un utopia “semplice”

È emersa durante la discussione la convergenza su un punto semplice ma cruciale: bisogna demercificare l’abitare – o forse più precisamente demercificare i suoli. Questo perché i mercati immobiliari sono un problema pure da una prospettiva liberale: contengono un fallimento del mercato programmato in quanto il valore di un immobile è composto da due parti, il valore dei muri di cui è fatto – un valore cioè legato al costo di costruzione per lavoro e materiali impiegati – e il valore del suolo, che è nient’altro del valore della localizzazione. Certamente si può discutere criticamente anche della prima parte ma è la seconda parte il problema maggiore. Perché il valore della localizzazione è per la maggior parte socialmente e collettivamente costruito; soprattutto nelle nostre città consolidate dipende solo in piccola parte da fattori naturali. Dipende invece da infrastrutture collettive, come quelle per la mobilità, dalla presenza di servizi e per una parte consistente dal valore attribuito attraverso la percezione di una data città o di un certo quartiere come bello, attrattivo o brutto, sporco e ‘degradato’. Il problema è quindi che la/il proprietariə di un immobile non ha contribuito nulla o quasi a questa parte del suo valore ma lo ha fatto la collettività – ma nel nostro mercato immobiliare è quasi sempre chi ha la proprietà dell’immobile che si appropria economicamente di questo valore. E soprattutto: questo valore cambia nel tempo – spesso al rialzo, trasformando così interi quartieri e città, rendendoli man mano sempre più inaccessibili a fasce sempre più ampie della popolazione. E innescando anche fenomeni ecologicamente dannosissimi come le costruzioni legate alla pura speculazione immobiliare-finanziaria.

L’utopia semplice sarebbe quindi demercificare i suoli urbani, collettivizzandone la proprietà, almeno in una parte consistente, per poter dare così un accesso equo e ‘sufficiente’ (abbastanza per tuttə, troppo per nessuno) all’abitare. Questo si potrebbe fare anche senza pregiudicare la proprietà della casa in sé in cui si abita che probabilmente è cara a moltə, come vediamo sotto.

Demercificare in questo modo il suolo è fondamentale per poter assicurare il diritto alla città ecologica, rendendo possibile l’implementazione di politiche per città più verdi e sostenibili senza innescare processi di gentrificazione.

 

  1. Alternative al modello Milano esistono. Abitare pubblico a Vienna, cooperative indivise, Mietshäusersyndikat e Community Land Trust

Ragionare sull’abitare in modo da mercificato non è niente di nuovo. Lo si è fatto già cento anni fa, durante una prima grande stagione dell’abitare pubblico e sociale. Il caso più esemplare a questo riguardo è quello di Vienna. Come spiega bene il Post in questo articolo (https://www.ilpost.it/2023/07/31/social-housing-vienna/), a Vienna c’è un secolo ininterrotto di costruzione dell’abitare pubblico e cooperativo (fatto bene), tanto che il 43% della popolazione vive in abitazioni di questo tipo. Questo fa sì che una gran parte del suolo della città sia sotto controllo pubblico e che l’abitare è molto più semplice: infatti a Vienna le persone spendono in media il 26% del loro reddito per l’abitare, mentre a Milano è il 52%. E questo riguarda anche il mercato privato restante in quanto questo sta comunque in competizione col mercato pubblico e cooperativo. Inoltre, in questo modo si può evitare che le case popolari diventino dei luoghi di concentrazione dei problemi sociali (In Italia invece le case popolari sono ca. il 3%, a Milano attorno al 10% del parco abitativo – e continuano a essere vendute, come emerso durante l’incontro).

Il caso di Vienna dimostra cosa si può raggiungere – peraltro senza collettivizzare tutto e subito ma piuttosto con una politica di giustizia sociale continuativa. Ovviamente Vienna non è la città perfetta e ad oggi non è certo una città della decrescita, ma questo riguarda altri aspetti come ad esempio la mobilità.

Anche in Italia c’è una tradizione di edilizia popolare ma è rimasta troppo piccola per poter raggiungere risultati simili. Interessante è anche la tradizione italiana delle cooperative indivise. Altrettanto lo è il modello tedesco del Mietshäusersyndikat, in cui una rete di più di 200 progetti abitativi costruiti dal basso si sostengono a vicenda e garantiscono attraverso un ingegnoso sistema di veti incrociati a lungo termine che non si possano a un certo punto far tornare le case nel mercato speculativo. La Foresta a Trento ne sta realizzando un pilota in Italia. Un altro modello è quello del Community Land Trust, che nasce da lotte di comunità nere negli Usa degli anni ‘70. Tutti questi modelli hanno in comune il fatto che collettivizzano in un modo o nell’altro – sia nelle mani del pubblico o di una collettività costruita dal basso i suoli, destinandoli al bene comune.

Il modello del Community Land Trust (CLT) funziona proprio separando, in modo permanente, la proprietà del suolo dalla proprietà delle case o appartamenti che stanno sul suolo. Nel primo caso che si sta realizzando a Torino (https://www.fondazioneportapalazzo.org/per-un-community-land-trust-a-torino/), il suolo rimarrà per sempre di proprietà di una fondazione costituita specificamente a questo scopo, mentre gli appartamenti verranno venduti, dopo i lavori di ristrutturazione, a famiglie che ne hanno bisogno a prezzi a loro accessibili grazie al fatto che pagano solo la parte di valore relativa all’appartamento in sé. In secondo luogo, la proprietà che loro acquistano è piena per quanto riguarda l’uso della casa a scopi di loro abitazione ma non può diventare oggetto di guadagno speculativo: non può essere messa a reddito e la rivendita è subordinata a un prezzo stabilito dalla fondazione limitandone fortemente l’aumento possibile (incentivandone però la manutenzione) e al fatto che venga venduta a un’altra famiglia in lista di attesa. È dunque una proprietà limitata al valore d’uso dell’immobile non interessata dalle variazioni del suo valore di scambio. Infine, la fondazione sarà governata da tre parti: le persone che vi abitano, realtà del territorio e realtà a garanzia dell’interesse pubblico generale. Insieme, questi meccanismi garantiscono che a lungo termine il suolo su cui il CLT sorge sia governato nell’interesse comune del quartiere.