Domande ricorrenti e risposte per chi vuol conoscere l’abc della decrescita
I testi delle Faq (Frequently Asked Questions) sono stati prodotti dalle seguenti persone: Bruna Bianchi, Paolo Cacciari, Adriano Fragano, Paolo Scroccaro, Mauro Bonaiuti, Alberto Castagnola, Marco Deriu, Dalma Domeneghini, Ferruccio Nilia, Maurizio Ruzzene, Gianni Tamino.
Le Faq sono state originariamente pubblicate nel volume curato da Bruna Bianchi, Paolo Cacciari, Adriano Fragano, Paolo Scroccaro, Immaginare la società della decrescita. Percorsi sostenibili verso l’età del doposviluppo, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2012.
1. Perché usate il termine “decrescita”, che suscita reazioni negative?
2. Intendete proibire lo sfruttamento di tutte le ricchezze naturali (petrolio, gas, minerali, foreste, oceani ecc.)?
3. Decrescita significa un ritorno a stili di vita preindustriali, alle “candele” e alle “caverne”?
4. Intendete negare agli abitanti dei paesi poveri ciò di cui hanno bisogno o che comunque desiderano?
5. L’attuale crisi significa che la decrescita è già cominciata e che quindi possiamo considerare con favore un futuro di depressione economica?
6. Come la decrescita prevede di risolvere i problemi dell’occupazione?
7. Con la decrescita il lavoro domestico e di cura graverà ancora e in maggior misura sulle donne?
8. Perché date così tanta importanza al “senso del limite”?
9. Qual è l’autorità che può stabilire la “giusta misura”?
10. Quale ruolo per la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico nella società della decrescita?
11. Quale potrà essere il rapporto tra la nostra specie e le altre specie animali nella società immaginata dalla decrescita?
12. Cosa dice la decrescita della proprietà?
13. Cosa pensa la decrescita del potere delle banche e del ruolo del denaro?
14. Che ruolo avrà l’immaginario?
15. Cosa può fare la decrescita al tempo della crisi permanente e sistemica (finanziaria, economica, ambientale)?
16. Come preparare la transizione, il passaggio, il cambiamento?
17. Che ruolo ha l’economia alternativa e solidale?
18. C’è una relazione tra decrescita e beni comuni?
19. Che importanza deve essere riconosciuta alle diverse culture?
20. La decrescita si pone in una prospettiva di genere?
1. Perché usate il termine “decrescita”, che suscita reazioni negative?
Perché è il termine che meglio mette a fuoco l’origine della crisi ecologica e sociale planetaria: l’ossessione della crescita economica a tutti i costi.
Ci rendiamo ben conto che la parola decrescita suscita istintivamente reazioni negative; suona quasi come un’eresia in una società che professa la “religione della crescita”. Anche alcuni di coloro che condividono con noi la necessità di un cambiamento dello stato di cose presente considerano la decrescita una proposta fuorviante, perché non sarebbe in grado di indicare con chiarezza i benefici e i beneficiari. Perché allora ostinarsi a riproporre il termine decrescita? Proprio perché suggerisce il rovesciamento di un modo di pensare e rivela l’irragionevolezza del dogma della crescita illimitata in un mondo finito. È come quel bambino che grida: “il re è nudo!”. Non è vero, infatti, che il perseguimento della crescita economica debba essere il fine principale della società umana. E, anche se così fosse, non sarebbe realistico, prima o poi ci scontreremmo con il limite delle risorse a disposizione.
Potrebbero esserci parole meno “disturbanti” per designare lo stesso concetto? Sicuramente sì. Molti movimenti sociali hanno coniato e usato parole diverse che ben si adattavano a diversi contesti storici e geografici: swadeshi, semplicità volontaria (Gandhi), bien vivir (comunità andine), economia del sufficiente e del bastevole (Wuppertal Institut). Altri autori hanno posto un’enfasi particolare su parole come convivialità (Illich), sobrietà (Gesualdi), austerità (Berlinguer), joie de vivre (Georgescu-Roegen), ecosocialismo (Frei Betto). A noi sembra che oggi, nel mondo occidentale, il termine decrescita non solo vada dritto al cuore del problema, ma che indichi la via da seguire per cambiare le cose.
Se partiamo dai principali problemi che tormentano l’umanità da alcuni decenni, come quelli legati alle guerre per l’accaparramento delle materie prime, agli sconvolgimenti climatici oppure a una delle tante epidemie che affliggono il pianeta, il termine è invece utile proprio per la sua radicalità. Se si vuole evitare un senso di disagio alle persone inclini più al rumore delle parole che all’ascolto, si può – subito dopo aver usato il termine decrescita – anche affermare che nessuno vuole tornare all’età delle caverne [vedi Faq n.3] e che il patrimonio scientifico e tecnologico non sarà certo cancellato, anzi troverà utilizzi molto più interessanti e positivi per il genere umano [vedi Faq n.10]. In realtà, la decrescita non prevede salti all’indietro nella storia, ma cerca di delineare prospettive meno dannose per il pianeta. Come? Proponendo consumi qualitativamente diversi di tutte le materie prime, agricole e industriali [vedi Faq n.2], la riduzione radicale dei contenuti di rifiuti inutilizzabili o inquinanti di ogni bene realizzato, un’alimentazione assolutamente sana e sufficiente per tutte le popolazioni del pianeta, una prospettiva di vita che valorizzi il godimento di tutti i beni naturali e culturali. Pesticidi e altri prodotti chimici tossici in agricoltura, le sostanze radioattive, gli imballaggi inutili, i mezzi di trasporto a energia fossile verrebbero eliminati o sostituiti con metodi naturali. Dovrebbero invece essere fortemente aumentate e diffuse le attività di ricerca e di studio, sia finalizzate che completamente libere, in modo da mettere a punto tecnologie non più basate su prodotti dannosi, ma che al contrario permettano di ottenere risultati molto efficaci da materie prime e fonti energetiche non più pericolose. Questo breve elenco fa capire che la decrescita non significa semplicemente “sottrazione” e che le “riduzioni” sono tali solo per chi vive, più o meno consapevolmente, in una dimensione di consumismo sfrenato. Al contrario si aprono prospettive di estremo interesse sociale; i “nuovi” prodotti potrebbero essere il risultato della completa riprogettazione di quelli preesistenti, oppure di intense attività di ricerca mirate a ottenere oggetti di qualità ecologica completamente diversa. Infine, non dovrebbe essere difficile elaborare modelli di convivenza differenti da quelli urbani e agroindustriali attuali, che permettano lo sviluppo delle relazioni tra le persone, senza che ciò richieda complessi sistemi di trasporto fortemente energivori e inquinanti. La decrescita dovrebbe cioè esercitarsi sulle dimensioni ormai insostenibili delle megalopoli e far invece emergere nuclei abitativi per gruppi umani di dimensioni molto più ridotte, percorribili sempre a piedi e dotati di centri per la cultura (dai cinema alle zone espositive). Analoga logica potrebbe essere applicate all’assistenza sanitaria, fortemente dislocata sul territorio, e ai centri scolastici e universitari, che verrebbero “avvicinati” alle popolazioni, invece di essere praticamente ingestibili a causa della loro eccessiva concentrazione in pochi centri urbani intensamente popolati.
Letture essenziali
Aa.Vv., Il dolce avvenire, esercizi di immaginazione radicale del presente, Diabasis, Reggio Emilia,
Aa.Vv., Decrescita. Idee per una civiltà post-sviluppista, Sismondi editore, Salgareda, 2009.
Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
2. Intendete proibire lo sfruttamento di tutte le ricchezze naturali (petrolio, gas, minerali, foreste, oceani ecc.) ?
No, pensiamo che i prelievi debbano rispettare i cicli vitali del pianeta e preservare le risorse non rinnovabili.
La premessa è nota: la rarefazione delle materie prime ci impone di diminuire molto e presto i flussi di energia e di materia impiegati nei cicli produttivi dei beni di consumo. È quindi necessario che scienziati e tecnologi affrontino sistematicamente i bilanci energetici e di materia per ogni filiera merceologica così da giungere a un’oculata utilizzazione delle limitate ricchezze idriche, forestali, minerarie, fossili ecc., non dissipare ricchezze non riproducibili e non compromettere il futuro delle generazioni a venire.
Tracciamo un quadro significativo dei passi da compiere nella prospettiva della decrescita. Prendiamo come esempio l’estrazione di minerali e di altre sostanze utili, svoltasi finora senza alcuna considerazione dei limiti dei giacimenti e del grave degrado che è scaturito dai metodi impiegati. Tra le miniere ancora operative occorre distinguere tra:
1) quelle che danneggiano immediatamente l’ambiente (miniere a cielo aperto, uso del mercurio per le miniere d’oro, perdite di petrolio nella fase estrattiva, gas bruciato invece di essere recuperato, estrazione dagli scisti bituminosi e impiego del metodo del fracking, cioè di frammentazione delle rocce ecc.);
2) quelle che alimentano le guerre (coltan, smeraldi, diamanti, e così via);
3) quelle in cui si estraggono minerali che già scarseggiano o che possono scarseggiare in un futuro immediato (rame, litio, terre rare ecc.);
4) quelle che usano troppa acqua per il lavaggio dei minerali dalle impurità;
5) quelle di carbone, torba ecc. che emettono in proporzione grandi quantità di anidride carbonica.
Qualora si decidesse effettivamente di limitare l’uso delle materie prime essenziali, gli impianti estrattivi sopra indicati diventerebbero più costosi e i più dannosi andrebbero chiusi velocemente. Parte della manodopera liberata potrebbe essere impiegata per altri usi dei siti o per aumentare le misure di sicurezza nelle miniere restanti. Per gli impianti in opera sarebbe opportuna un’analisi internazionale dei fabbisogni minimi delle singole materie prime, suddivisa per paesi. A scopo preventivo dovrebbero essere adottate azioni di contenimento dei consumi per ridurre la pressione sull’attività estrattiva, e soprattutto andrebbero avviate pratiche di recupero e riciclo di materiale già estratto.
Per l’agricoltura dovrebbero essere promosse le produzioni biologiche e naturali, per arrivare alla completa cessazione dell’uso di pesticidi, fertilizzanti ed erbicidi. Per gli animali, e più in generale per tutte le specie viventi, dovrebbero finalmente essere adottati principi improntati al rispetto e alla responsabile gestione delle ricchezze naturali collettive, interrompendo la strage quotidiana perpetrata dalla nostra specie per accondiscendere al paradigma antropocentrico secondo cui la natura è al nostro servizio.
In tempi stretti dovrebbe quindi essere avviato un processo di mutamento in cui a prevalere siano gli obiettivi di salvaguardia e conservazione. Le produzioni avverrebbero invece in funzione di consumi incentrati sui bisogni essenziali e sulla soddisfazione di esigenze espresse rispettando la volontà delle popolazioni locali residenti.
L’applicazione reale dei principi della decrescita dovrebbe essere accompagnata dalla sparizione di fame e malnutrizione, dal libero accesso all’acqua e ai servizi igienici anche per le fasce più povere delle popolazioni di ogni paese e dalla possibilità per tutti di collegarsi alle moderne reti di comunicazione.
Le affermazioni contenute in questo testo troveranno la dura opposizione di gran parte delle imprese multinazionali, e in particolare di quelle che operano nel settore minerario ed estrattivo in regime di monopolio assoluto, di quelle del settore chimico, agrochimico e zootecnico, di quelle dei trasporti convenzionali e così via. L’opposizione si manifesterà anche da parte di molti stati nazionali, specie da quelli che finora aspiravano al controllo dei flussi di materie prime agricole e industriali. Alla luce di tutto questo, il nuovo complesso di modelli di consumo e di produzione, che dovrà funzionare prima che i meccanismi climatici giungano alla fase delle catastrofi ambientali più estreme, richiede il sostegno di una società civile globale, consapevole delle proprie responsabilità.
Letture essenziali
Mario Agostinelli, R. Meregalli, P. Tronconi, Cercare il sole dopo Fukushima, Ediesse, Roma, 2011.
A Sud, Il sangue della terra, Derive Approdi, Roma, 2006 e Schede sui principali conflitti ambientali.
Ugo Bardi, La Terra svuotata. Il futuro dell’uomo dopo l’esaurimento dei minerali, Editori Riuniti University Press, Roma, 2011.
Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio, l’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari, 2011.
Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Schede grandi opere a forte impatto negativo sull’ambiente.
Stefano Liberti, Land Grabbing, Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Minimum Fax, Roma, 2011.
Anna Pacilli, Anna Pizzo, Pierluigi Sullo (a cura di), Calendario della fine del mondo. Date, previsioni e analisi sull’esaurimento delle risorse del pianeta, Intra Moenia, Napoli, 2011.
Mirco Rossi, Energia e futuro, le opportunità del declino, EMI, Bologna, 2009.
K. Werner, H.Weiss, I crimini delle multinazionali, Newton Compton , Roma, 2010.
3. Decrescita significa un ritorno a stili di vita preindustriali, alle “candele” e alle “caverne”?
No. La decrescita comporta una sostanziale correzione degli stili di vita dispendiosi e ingiusti, ma ciò ci renderà più liberi, sereni e responsabili.
Ci viene contestato, spesso in modo un po’ sprezzante, che quello che proponiamo con la decrescita altro non sarebbe che un ascetismo ideologico che, a fronte di una presunta minaccia ecologica, contrabbanda per desiderabile una triste e masochistica rinuncia alle comodità e ai piaceri materiali. Tutti avremmo meno scelta nel mangiare e nel vestire, vivremmo in case tiepide d’inverno, rinunceremmo al condizionatore d’estate, all’automobile e all’aereo e via dicendo. Certo, alcune correzioni sono necessarie. La riduzione del nostro impatto ambientale è un passaggio epocale che non ci siamo inventati noi ed è indispensabile se vogliamo preservare l’umanità e il pianeta.
I cantori della crescita mancano di realismo e capacità di riflessione e confondono una critica costruttiva e articolata alla tecnologia, al pensiero calcolante e all’industrialismo [vedi Faq n.8] con un ritorno a stadi premoderni della storia dell’umanità. Numerose ricerche scientifiche (oltre al semplice buonsenso) affermano la necessità di rispettare i cicli e i ritmi della natura, degli ecosistemi e di tutto il vivente. In questo non vi è nulla di estremista, ma piuttosto l’assunzione di responsabilità di fronte alle gravi emergenze del nostro tempo. Non possiamo continuare a promuovere modelli tecnologici, economici, etici ecc. aggressivi e devastanti nei riguardi della Terra: questa esigenza sollecita radicali innovazioni nella ricerca scientifica e nelle sue applicazioni industriali, oltre che un cambiamento negli stili di consumo dominanti nella nostra società.
Si tratta di un processo che richiede una profonda motivazione e un vero impegno, e che comporta sicuramente alcune rinunce e l’accettazione di una maggiore sobrietà di vita, ma che va attuato al più presto a ogni livello, anche individuale [vedi Faq n.4]. Non si tratta però di scelte impossibili, e se tutti cominciassimo a modificare le scelte alimentari, a non comprare prodotti usa e getta, a non riscaldare e refrigerare inutilmente le nostre case, a usare la bici o a camminare ogni volta che possiamo, a riparare e a far durare le cose, il miglioramento sarebbe rapido e significativo. Ma non è tutto: chi già lo ha fatto ha scoperto che modificare i consumi non solo è un atto di buon senso in un pianeta ecologicamente allo stremo, ma che questo può migliorare la nostra quotidianità.
Liberare la vita dal superfluo e trattare con cura le cose di cui ci circondiamo vuol dire rendersi liberi dalla tirannia di moda e status symbol. Soprattutto, consumare meno significa avere meno bisogno di denaro, lavorare meno e recuperare modalità di vita che danno spazio alle relazioni, al miglioramento di sé e anche all’ozio creativo e non consumistico.
Dovremmo però provare a capire perché i bisogni aumentano in una società che già possiede più di quanto sia mai stato posseduto prima e in cui gli stessi economisti danno per scontato che da almeno quarant’anni in Occidente, a fronte dell’aumento dei consumi, la felicità percepita dalle persone non è aumentata. Anzi!
Certo, nel momento in cui la nostra società ha iniziato a sperimentare la diffusa disponibilità di beni materiali, la qualità della vita per certi versi è migliorata: oggetti come la lavatrice, il computer o il cellulare hanno cambiato le nostre abitudini. Eppure continuiamo a sostituire quello che abbiamo solo per scoprire che il nuovo acquisto è spesso più fragile e mal funzionante del suo predecessore.
Certamente, dietro alla spinta all’iperconsumo, c’è la volontà delle imprese di far sì che le cose non durino (“obsolescenza programmata”) per costringerci a ricomprarle sempre più frequentemente. E della pubblicità, che ci martella in testa l’idea che ogni nuovo prodotto è nato per offrirci quelle qualità, prestazioni ed efficienza che mancano a quello che già possediamo. Ma tutto questo non basterebbe se non fossimo in qualche modo complici: Jean Baudrillard osserva che ormai siamo tutti permanentemente mobilitati come consumatori, cosicché è proprio questa mobilitazione incessante ad alimentare la logica della crescita. Siamo assuefatti a consumare e implicitamente convinti che un mondo con meno cose e meno novità sia triste e noioso. Il vero motore della società dei consumi è la creazione di nuovi desideri tramite la seduzione del consumismo, il che comporta lo spreco sistematico come norma di vita e spacciato per progresso. Noi, al contrario, pensiamo sia auspicabile affrancarsi da questi meccanismi psicologici e provare a sperimentare una vita più semplice e meno frenetica, accettando di porre dei limiti alla proliferazione telecomandata dei bisogni. Questo può aiutarci a ritrovare la capacità di provare soddisfazioni sicuramente più ricche e profonde.
Quindi, al fondo, non è poi così assurdo accettare con onestà e apertura mentale la sfida che ci viene da certe saggezze antiche o da culture che non hanno scelto la modernità occidentale [vedi Faq n. 19]. Il fatto di riprendere importanti insegnamenti dal passato, coniugandoli con gli sviluppi più avanzati delle scienze, della filosofia, dell’etica, della cultura in generale è indispensabile per elaborare un nuovo paradigma di civiltà, in alternativa a quello ancora dominante, incapace di affrontare costruttivamente i gravissimi problemi ambientali, economici, sociali, etici e spirituali che ha provocato [vedi Faq n.15].
Letture essenziali
Zygmunt Baumann, Homo Consumens, Centro Studi Erickson, Gardolo (TN), 2007.
Edward Goldsmith, La grande inversione, Franco Muzzio, Roma, 1992.
Erich Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1977.
Gianfranco Bologna, Manuale della sostenibilità, Edzioni Ambiente, Milano, 2005.
Majid Rahnema, Jean Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano, 2010.
Wolfgang Sachs, Archeologia dello sviluppo, Macro Edizioni, Cesena, 1992.
Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna, 1976.
4. Intendete negare agli abitanti dei paesi poveri ciò di cui hanno bisogno o che comunque desiderano?
Al contrario, noi vogliamo evitare che subiscano nuove colonizzazioni.
Questa domanda viene spesso formulata da chi si dedica sinceramente ai problemi delle popolazioni impoverite, ed evidenzia la presunta impossibilità di rispondere negativamente alla domanda di “crescita” proveniente da quei paesi definiti sbrigativamente “sottosviluppati” e che rappresentano la metà della popolazione del pianeta che cerca faticosamente di sopravvivere. Sembra infatti ovvio che la filosofia della decrescita non sia proponibile a tutti coloro che non riescono a soddisfare i loro bisogni minimi essenziali. Cosa potremmo mai “ridurre” al miliardo di persone che corre ogni giorno il rischio di morire di fame e ai due miliardi e mezzo di persone prive di accesso all’acqua potabile e mancanti dei servizi igienici più semplici? Stesso discorso vale per coloro che nei paesi industrializzati vivono al di sotto della soglia di povertà calcolata dalla Banca Mondiale o che sono privi dell’assistenza sanitaria gratuita.
Ma la domanda nasconde un equivoco di fondo: la decrescita non è sinonimo di diminuzione dei beni e dei servizi necessari allo star-bene delle persone. La decrescita al contrario si propone di aumentare l’accesso a ciò che ci serve liberandolo dal giogo del denaro, e che invece la logica e i meccanismi di mercato negano a molti [vedi Faq n.18]. Infatti, è solo fuoriuscendo dal dominio della produzione mercificata e del consumo mercatizzato che è possibile “lasciare in loco”, a disposizione delle popolazioni locali, le immense risorse dei “sud” del mondo.
Ha scritto Hervè Renè Martin: “Che potrebbe succedere di meglio agli abitanti dei paesi poveri che vedere il loro PIL diminuire? La crescita del loro PIL misura soltanto l’aumento dell’emorragia”. Chi ha stabilito che per avere accesso a ciò che serve per vivere con dignità si debba obbligatoriamente lavorare sotto un padrone (la metà delle volte si tratta di multinazionali) e comprare da terzi (sempre i soliti)? Dove sta scritto che le popolazioni del sud del mondo debbano subire ragioni di scambio inique? [vedi Faq n.14].
La domanda iniziale, pur poggiando su dati non certo discutibili, risulta comunque capziosa. È evidente che la decrescita non riguarda lo scarso cibo disponibile in gran parte dei paesi poveri, ma prevede in primo luogo una rapida diminuzione delle coltivazioni finalizzate all’esportazione e orientate a soddisfare le esigenze dei paesi ricchi (le piantagioni di caffè, cacao, canna da zucchero, soia, biocarburanti ecc.) e l’aumento delle produzioni di alimenti destinati al consumo locale; la fine dell’uso di pesticidi e di altri prodotti chimici di sintesi per l’agricoltura a tutto vantaggio della salute dell’ambiente, degli animali e delle popolazioni locali; la cessazione della creazione dell’uso di semi geneticamente modificati e il ritorno alle sementi originarie e agli alimenti emarginati per favorire l’imitazione dei modelli di consumo occidentali; il blocco degli acquisti di terre fertili da parte di paesi industrializzati che cercano di premunirsi da scarsità future; la revisione totale delle logiche di cooperazione internazionale, che finora hanno favorito le produzioni per le popolazioni ad alto reddito e l’invasione del cosiddetto Terzo mondo con eccedenze di beni che restando in occidente avrebbero ridotto i redditi dei contadini locali.
Modificare le attuali logiche nei rapporti Nord-Sud ridurrebbe subito le diseguaglianze più umanamente insostenibili, ma soprattutto permetterebbe alle popolazioni del Sud del mondo di tutelare al massimo le loro risorse naturali, a tutto vantaggio degli equilibri ambientali e climatici del pianeta nel suo complesso.
In questa logica, per esempio, un paese come l’Ecuador ha proposto di evitare ulteriori estrazioni di petrolio se gli altri paesi avessero messo a disposizione i mezzi per interventi a favore della sua popolazione, ma la comunità internazionale non ha ancora dato risposte a una offerta che consentirebbe di cominciare a ridurre l’uso dei combustibili fossili e quindi di diminuire l’inquinamento atmosferico. Analoghe proposte potrebbero essere formulate per tutte le 40 materie prime industriali.[Terra Nuo1]
Naturalmente, un cambio di modello così radicale e profondo, imposto dai mutamenti climatici e dalla minore disponibilità di materie prime, specie energetiche, non dovrà essere effettuato con la violenza da inimmaginabili governi mondiali, ma può soltanto essere il risultato di una presa di coscienza diffusa e di una specifica maturazione culturale di ciascuna area, in modo che siano le popolazioni stesse a desiderare di creare e costruire un proprio modello sociale rispettoso del pianeta [vedi Faq n.9].
Il rischio che stiamo correndo in questi anni è che l’inizio dei processi di trasformazione sia troppo in ritardo rispetto alla dinamica rapidissima dei meccanismi di danno ambientale. Potrebbero aumentare i costi economici della transizione, ma soprattutto potrebbero diventare pesanti i costi sociali, qualora grandi masse decidessero di ribellarsi alla mancanza di strategie internazionali orientate al mutamento; in questo senso i risultati degli ultimi vertici internazionali e la scarsa importanza attribuita alle politiche ambientali da parte degli stati non lasciano troppo tranquilli.
Letture essenziali
Serge Latouche, L’altra Africa, tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Serge Latouche, Giustizia senza limiti, la sfida dell’etica in una economia globalizzata, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Hervè-Renè Martin, Eloge de la simplicite volontarie, Flammarion, 2007.
Majid Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino, 2005.
Majid Rahnema e Jean Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano, 2010.
5. L’attuale crisi significa che la decrescita è già cominciata e che quindi possiamo considerare con favore un futuro di depressione economica?
No. La recessione in atto non va confusa con la decrescita scelta e selettiva che auspichiamo e che è la via per fuoriuscire dal diktat economico “ crescita o morte”.
La fase oggi attraversata da moltissimi paesi di più antica industrializzazione è il risultato della sovrapposizione di più crisi diverse: economica, finanziaria, ambientale. I processi di decrescita che noi auspichiamo non vanno confusi con le politiche di “austerità” messe in atto dai governi e che sono un modo per adattarsi arrendevolmente alla crisi. Non vanno neppure scambiati con le politiche neokeynesiane di sostegno pubblico all’economia di mercato, che servono solo ad attutire e dilazionare le conseguenze della crisi senza affrontare le sue ragioni profonde e strutturali.
La decrescita invece comporta un autentico cambiamento di modello, un nuovo paradigma, un formidabile salto storico nelle relazioni e nelle logiche sociali, per un motivo molto semplice: le analisi formulate sullo “sviluppo” hanno suggerito ai teorici della decrescita che è l’intero sistema capitalistico a dover essere sostituito, poiché i danni arrecati al pianeta e alle popolazioni più deboli non possono essere modificati dall’attuale sistema economico e sociale. Il modello attuale ha superato i limiti di sopravvivenza della biosfera, ha trasformato il clima, sta alterando le condizioni di sopravvivenza delle specie viventi (non solo di quella umana).
Oggi crisi e depressione economica sono associate all’impoverimento e per questo preoccupano coloro che hanno a cuore le vite delle persone più esposte ai condizionamenti del mercato e senza alternative di reddito. Questa condizione sembra corroborare le equazioni ripetute fino alla noia dai media e dai politici di ogni schieramento: crescita = maggiore ricchezza e benessere; crisi = diminuzione della ricchezza e del benessere.
In realtà, non è sempre e necessariamente così, e in molti casi è vero il contrario: per esempio la crescita del PIL spesso è accompagnata da un peggioramento del benessere, perché può avvenire in conseguenza di guerre (spese militari e per la ricostruzione), di catastrofi ambientali (come è avvenuto in Giappone l’anno successivo al terremoto), di malattie (più farmaci, più prestazioni sanitarie), di inquinamento (occorre bonificare) e così via. Più in generale, la contabilità economica ufficiale non considera in modo adeguato i costi effettivi della crescita, che di norma vengono esternalizzati e proiettati il più possibile nel futuro. La separazione spazio-temporale tra i benefici immediati e i costi reali occultati o rinviati rinsalda la fede semplicistica nella bontà della crescita e del consumismo, generando l’illusione di un maggior benessere, anche quando in realtà stiamo diventando più poveri, indipendentemente dalla crisi.
Pertanto misurare l’andamento economico attraverso il PIL non può fornire indicazioni attendibili sul benessere reale o sull’impoverimento di un paese: questa tesi, che una volta sembrava sovversiva o bizzarra, è oggi accolta anche presso ambienti istituzionali importanti, Commissione Europea in primis, che nello studio L’economia degli ecosistemi e della biodiversità considera apertamente la vecchia bussola del PIL come superata, ponendo il problema di individuare indicatori alternativi da proporre agli stati europei.
Proviamo ora a esplorare le occasioni che offre una recessione protratta nel tempo di sottrarsi prima possibile all’influenza nefasta del sistema e del pensiero liberista.
Un primo livello di impegno “decrescente” riguarda i comportamenti economici quotidiani, personali e familiari: cosa acquistare, dove e a che prezzo, cosa consumare, a quali caratteristiche dei prodotti fare attenzione [vedi Faq n.3]. Un secondo livello risiede nella possibilità di dedicare più tempo a se stessi e alle proprie esigenze, troppo spesso trascurate. Una terza linea di preparazione al futuro consiste nell’immaginare il ruolo che ciascuno vorrebbe avere nella società, che sarà il risultato di una costruzione comune. Infine, è evidente che un inserimento attivo in esperienze come il commercio equo e solidale, i gruppi di acquisto solidali, l’alimentazione biologica, o in esperienze di vita rurale e comunitaria è sicuramente un fattore importante di coinvolgimento e di scambio [vedi Faq n.17].
Per valutare in modo adeguato e non unilaterale l’andamento del benessere reale, sia in tempi di crescita che di recessione, servirebbe una scienza economica diversa da quella oggi dominante, incentrata su parametri funzionali al business ma incapace di descrivere e conteggiare in modo equilibrato gli aspetti positivi e negativi dello sviluppo economico. Un tentativo in questa direzione è quello portato avanti dalla corrente nota come “Economia ecologica”, i cui esponenti forniscono studi e dati utili a orientare una strategia di decrescita. Tra questi, Herman Daly ha mostrato che ormai nei paesi avanzati ogni incremento di crescita ci rende più poveri e non più ricchi, perché i vantaggi dovuti a tali incrementi sono pareggiati, se non superati, dai costi complessivi necessari per ravvivare la crescita.
L’alternativa tra crescita e recessione è quindi priva di importanza strategica e di significato: ciò che più importa è il fatto che, in entrambi i casi, il sistema sviluppista non è in grado di assicurare il benessere dei suoi membri, ma solo, eventualmente, il profitto per alcune minoranze affaristiche a danno della società e della natura. Crescita e recessione appartengono entrambe al paradigma economico dominante, da cui la decrescita prende le distanze aprendo a una prospettiva del tutto diversa, che è quella della “prosperità senza crescita” (Tim Jackson) e della società di decrescita fondata sull’abbondanza frugale (Serge Latouche).
Letture essenziali
Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Bari-Roma, 2008.
Ruth Cullen, 99 idee per salvare la Terra. Manuale pratico di pronto soccorso ecologico, Astraea, Bologna, 2008.
Herman Daly e John Cobb, Un’economia per il bene comune, Red, Como, 1994.
Francesco Gesualdi, Sobrietà felice. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, Milano, 2005.
Serge Latouche, Abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
Marina Martorana, Low Cost, vivere alla grande spendendo poco, Vallardi, Milano, 2008.
Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecosfera e rivoluzione scientifica. Dalla natura come organismo alla natura come macchina. Garzanti, Milano, 1988.
Tim Jackson, Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente, Milano, 2011.
Sandro Pignatti e Bruno Trezza, Assalto al pianeta, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Andrea Poggio, Vivi con stile, 150 consigli pratici per una vita a basso impatto ambientale, Terre di Mezzo, Milano, 2007.
Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1998.
6. Come la decrescita prevede di risolvere i problemi dell’occupazione?
Distribuendo in modo molto diverso lavoro e retribuzioni, rispettando e valorizzando le attività a bassa intensità di tecnologia, in primo luogo l’agricoltura naturale.
É ormai abbastanza evidente che la situazione occupazionale di gran parte dei paesi occidentali più industrializzati è diventata il problema di più difficile soluzione nell’attuale fase di crisi, e anche la più evidente dimostrazione del fallimento del modello economico fondato sulla crescita.
I mercati del lavoro nazionali hanno visto aumentare di oltre 46 milioni la disoccupazione ufficiale negli ultimi anni; di questi, oltre 7 milioni sono il risultato del ridimensionamento dei posti di lavoro nelle principali imprese multinazionali, anche in quelle operanti in settori tecnologicamente avanzati. Ciò significa che la disoccupazione colpisce anche imprese con posizioni monopolistiche e all’avanguardia.
Anche l’applicazione di molteplici forme di precariato ha contribuito a ridurre i processi di avviamento a un impiego a tempo indeterminato, oltre che a spingere giovani e immigrati nell’area del non lavoro. La perdita del posto di lavoro in Italia, inoltre, ha colpito in misura rilevante anche la fascia dei dirigenti, in particolare quelli di età superiore ai 50 anni. Scompensi tra domanda e offerta per varie categorie di manodopera specializzata si registrano nelle medie e piccole imprese, mentre i flussi migratori hanno ripreso a interessare diverse aree del paese e dell’Europa.
A queste contraddizioni del mercato del lavoro si aggiungono le conseguenze a breve e a lungo termine delle misure di “austerità” adottate nei mesi più recenti e riguardanti i trattamenti pensionistici. L’aumento del periodo lavorativo obbligatorio allontana l’età della pensione e mantiene più a lungo in servizio persone di una certa età: questo non consente di liberare posti di lavoro per assorbire manodopera più giovane e qualificata, mentre incide negativamente sull’efficienza e sulla creatività all’interno di aziende ed uffici amministrativi. Questo tipo di misure sono adottate nella speranza di un rapido riequilibrio del debito pubblico, ma rischiano di avere conseguenze sociali negative in tempi neppure troppo lontani.
Il pensiero della decrescita si muove in una prospettiva completamente diversa. Il passaggio a un sistema energetico molto meno inquinante e a una struttura produttiva più rispondente alla reale disponibilità di materie prime e con metodi di estrazione non dannosi per l’ambiente, dovrebbe permettere di ridurre le ore lavorate per persona e di concentrare la produzione su beni e servizi davvero utili, pur mantenendo retribuzioni adeguate a soddisfare quei bisogni non appagabili ricorrendo ad autoproduzione, attività di cura, lavoro conviviale ecc. Può essere difficile concepire un cambiamento di logica così radicale, ma è sempre più probabile che le pressioni climatiche e il rapido aumento dei danni ambientali costringeranno la maggior parte dei paesi ad avviarsi su questa strada in tempi stretti.
Una volta aumentato il tempo liberato dal lavoro subordinato retribuito, diventerà più facile poter svolgere con motivazioni sociali attività di interesse personale e comunitario. In tal modo si possono ipotizzare lavori che soddisfino anche le esigenze più profonde di massima valorizzazione della creatività e delle capacità personali. Un bravo artigiano avrà allora lo stesso riconoscimento sociale di un artista e l’uso del tempo liberato permetterà di risolvere una serie di problemi sociali che oggi appaiono irrisolvibili perché legati a una spesa pubblica fuori controllo (per esempio l’assistenza a bimbi piccoli e ad anziani non più autosufficienti), mentre ognuno potrà moltiplicare le sue attività in modo non condizionato dalle retribuzioni.
Una tale trasformazione può essere immaginata come un processo graduale, attuabile nella misura in cui muteranno le logiche economiche e culturali di fondo: naturalmente, questo processo di mutamento dovrà mettere in discussione la divisione sessuale del lavoro e l’asimmetria tra i generi che caratterizza attualmente il mercato del lavoro (vedi FAQ 7). Inoltre, la riduzione del tempo di lavoro e l’aumento del tempo liberato da rapporti di produzione comunque subalterni non garantisce automaticamente un uso del tempo davvero restituito alle scelte autonome individuali. Come già spiegava Baudrillard, il cosiddetto “tempo libero” è in realtà soggetto a forti condizionamenti eteronomi come “tempo di consumo prestrutturato” e funzionale alla crescita più ancora del tempo di lavoro. Basti vedere a quanti pensionati o anche giovanissimi siano “gioiosamente” asserviti – reddito permettendo – al tempo del consumo e dello spettacolo capillarmente organizzato (televisione, viaggi, turismo, grandi magazzini, Internet ecc.). La riduzione del tempo di lavoro subordinato, per non essere riassorbita nella logica consumista del sistema, va dunque reinquadrata in una logica di sobrietà e responsabilizzazione civile, che contesti a livello teorico e pratico il paradigma consumista/sviluppista oggi predominante.
In generale, occorre poi rivalorizzare le attività ad alta intensità di lavoro e a bassa intensità di tecnologia, come è il caso, per esempio, dei servizi assistenziali o delle diverse forme di coltivazione naturale. Un’ampia letteratura scientifica ritiene che queste ultime vadano sempre più promosse e sostenute per i benefici globali che procurano alle comunità, contro un’agroindustria scandalosamente finanziata con denaro pubblico e responsabile del deterioramento ambientale e della scomparsa del lavoro contadino. Il rilancio delle attività agricole non industriali, che stanno incontrando il crescente favore dei consumatori anche per la qualità dei loro prodotti, può concorrere in modo decisivo alla soluzione del grave problema occupazionale che affligge i paesi occidentali.
Fonti dei dati utilizzati
Rapporti ILO, Organizzazione Internazionale del Lavoro.
Rapporto Manageritalia 2012, Dirigente, 50 anni, in centomila perdono il posto, “Corriere della Sera”, 7 maggio 2012.
Rapporto Excelsior di Union Camere-Ministero del Lavoro, sulle qualifiche di lavoro introvabili, “Corriere della Sera”, 6 maggio 2012.
Letture essenziali
Luciano Gallino, Occupazione, ricette immaginarie, in: “La Repubblica”, 3 marzo 2012.
Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista di P. Borgna, Laterza, Roma, 2012.
Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli, 1978.
Serge Latouche, Abbiamo paura ad ammetterlo, il problema è il lavoro, http://comune-info.net/2012/05/a-sinistra-abbiamo-paura-ad-ammetterlo-il-problema-e-il-lavoro/.
Richard Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2009.
Jean Baudrillard, Lo specchio della produzione, Multhipla, 1979.
7. Con la decrescita il lavoro domestico e di cura graverà ancora e in maggior misura sulle donne?
La decrescita intende superare l’attuale divisione sessuale del lavoro, e pone al centro del suo progetto di cambiamento la valorizzazione del lavoro di produzione e conservazione della vita.
In una società caratterizzata dal dominio pervasivo degli uomini sulle donne, è assai probabile che di qualsiasi mutamento o processo innovativo si avvalgano soprattutto gli uomini. La storia ne fornisce numerosi esempi. Basti pensare alla rivoluzione bolscevica, che vide la retorica della liberazione della donna dal lavoro domestico risolversi in un’estensione della schiavitù industriale delle donne senza sollevarle dal lavoro di cura, che anzi subì una svalutazione ancora più accentuata. In questo contesto, anche l’adozione del diritto di famiglia più avanzato del mondo (depenalizzazione dell’aborto, divorzio) ha finito per alimentare l’irresponsabilità maschile. A mutare non furono tanto le relazioni tra i generi, quanto le giustificazioni di un dominio antico. È quindi lecito temere che anche il processo avviato dalla decrescita, se non riuscirà a mettere in discussione quel dominio fondato sulla divisione sessuale del lavoro, se non sfiderà la svalutazione del lavoro domestico e di cura, da tempi immemorabili svolti dalle donne, si risolverà in una riaffermazione dell’asimmetria tra i generi.
Nell’immaginare e costruire una transizione democratica e creativa verso una società libera da ogni forma di dominio, il pensiero e le pratiche della decrescita possono incontrare la riflessione femminista sull’economia, sul lavoro di riproduzione, sul nesso tra oppressione delle donne e dominio sulla natura; possono attingere all’esperienza dei movimenti femminili in varie parti del mondo in difesa dell’ambiente e delle terre comuni, volti a preservare la dignità, l’autodeterminazione e l’autosufficienza delle donne. Tra il pensiero della decrescita e quello femminista, infatti, molti sono i presupposti comuni: la critica alla crescita, un modo nuovo di intendere l’economia che riconosce come fondamentali attività e servizi che non derivano dalla produzione di beni materiali, ma che assicurano il benessere e conservano la vita, ovvero il lavoro non riconosciuto e non pagato delle donne, precondizione e fondamento di ogni altro lavoro, fondamento del processo di accumulazione capitalistico.
Le condizioni in cui si svolge il lavoro di produzione e conservazione della vita nelle società industrializzate ha sollevato e solleva non pochi dilemmi a coloro che si pongono in una prospettiva di radicale mutamento dei rapporti sociali, tra i generi e tra esseri umani e natura. Come rapportarsi al lavoro domestico? Come infrangere le barriere artificiali che il capitalismo ha creato tra lavoro salariato e non, come valorizzare il lavoro delle donne sottraendolo all’invisibilità? L’unico riconoscimento possibile nelle società industriali è la retribuzione, ed è in questa direzione che i movimenti femminili si sono orientati, soprattutto in passato. Ma se da un lato la retribuzione del lavoro domestico e di cura potrebbe assicurare maggiore indipendenza e dignità alle donne, valorizzare la maternità e far diminuire la povertà infantile (un bambino su quattro in Italia è a rischio di povertà), dall’altro il vincolo del denaro potrebbe anche creare nuove catene e nuove svalutazioni. Infatti, come misurare il lavoro di cura in termini monetari? Perché allora, invece di tentare di integrare il lavoro domestico e di cura all’interno del paradigma esistente, ovvero all’interno del sistema di valori dell’economia patriarcale, non rivedere i nostri presupposti concettuali cercando di guardare oltre il mercato e la monetizzazione delle prestazioni? Perché, invece che alla compensazione, non si pensa piuttosto a rimuovere le barriere che impediscono ai valori sottesi al lavoro di riproduzione e conservazione della vita di estendersi, permeando la società e diventando obiettivo primario dell’economia? È quanto sostengono alcune autrici contemporanee che hanno rivolto la propria attenzione a tutte le altre aree di lavoro non salariato, in primo luogo ai contadini – uomini e donne – dei paesi del Sud del mondo (vedi FAQ 4 e 20).
L’attività legata al lavoro di produzione e conservazione della vita è stata recentemente rappresentata come il cuore dell’economia, definita come l’unica “economia libera”: più ci si allontana da quel centro, maggiore l’instabilità, lo sradicamento, il disagio individuale, il malessere sociale e il degrado ambientale. La critica radicale alla crescita economica ha condotto e conduce verso la creazione di economie locali alternative, verso la formazione di comunità che riflettano la centralità della vita domestica, basate sull’etica della sussistenza, in cui il lavoro non ha altro scopo che la produzione immediata della vita, dove si faccia largo una diversa dimensione del tempo, il tempo biologico, che è il tempo delle donne quando compiono il lavoro di cura. La semplice riduzione della giornata lavorativa non si è mai risolta in una maggiore responsabilità maschile per il lavoro domestico e di cura: solo una diversa concezione del tempo, del lavoro, dell’economia potrà condurre al superamento della divisione sessuale del lavoro.
Agire in base alla consapevolezza che il benessere umano, fisico ed emotivo, dipende dalle attività basate sulla sussistenza e non dal denaro, implica un rinnovamento culturale profondo, un mutamento radicale di tutte le relazioni sociali, tra gli uomini e le donne, le generazioni, le aree urbane e rurali, le classi, i popoli, tra gli esseri umani, gli altri animali e la natura. Implica in primo luogo che gli uomini, per preservare la loro stessa umanità e dignità, vogliano e sappiano riconoscere e far propri i valori della produzione e del sostegno della vita, cambiare il proprio modo di pensare, di essere nel mondo e nella relazione con le donne, rifiutino la violenza, condividano la responsabilità per il lavoro domestico, la cura dei bambini, degli anziani e dei malati.
Letture essenziali
Ester Boserup, Il lavoro delle donne. La divisione sessuale del lavoro nello sviluppo economico, Rosenberg & Sellier, 1982.
Veronika Bennholdt-Thomsen, La politica della prospettiva di sussistenza, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 20, 2012, www.unive.it/dep, luglio 2012.
Maria Rosa Dalla Costa-Giovanna Franca Dalla Costa (a cura di), Donne, sviluppo e lavoro di riproduzione, Angeli, Milano 1996.
Elisabetta Donini, Donne, ambiente, etica delle relazioni. Prospettive femministe su economia e ecologia, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 20, 2012, www.unive.it/dep, luglio 2012.
Hikka Pietila, Basic Elements Of Human Economy. A Sketch For A Holistic Picture Of Human Economy (1997), www.kasakobiet.ngo.org.pl/teksty/hilkka_pietila_eng.html.
Wally Seccombe, Famiglie nella tempesta. Classe operaia e forme famigliari dalla rivoluzione industriale al declino della fertilità [1993], La Nuova Italia, Firenze 1997.
8. Perché date così tanta importanza al “senso del limite”?
Perché la potenza di trasformazione dell’ambiente naturale raggiunta dalla tecnoscienza è tale da consigliare di tenerla sotto costante verifica.
Nell’ottica della cultura moderna e contemporanea, il “limite” assume una connotazione più che altro negativa: viene associato a qualcosa che ostacola la libertà e il raggio d’azione dell’attivismo umano. Si tratta perciò di lottare contro tutto ciò che figura come manifestazione di una tale forza limitatrice, considerata ostile nei riguardi del mondo umano.
Quasi tutta la cultura moderna trova il suo orizzonte di senso in questa battaglia contro il limite; le principali filosofie moderne non fanno altro che cercare di giustificare, nobilitare e sistematizzare questa visione bellicosa del mondo, incentrata su una pretesa di fondo, considerata ovvia: il diritto del genere umano – specialmente quello occidentale – a espandersi oltre ogni misura, abbattendo via via gli ostacoli, e poiché tra questi il principale è rappresentato dalla natura, l’appello alla lotta contro di essa diventa un monotono ritornello che accomuna le principali correnti della modernità, siano esse di tipo materialistico o spiritualistico. Bacone, Cartesio, Locke, Kant, Fichte, Hegel, Marx, non hanno fatto altro che proporre alcune varianti sul tema comune di fondo. Scienza e tecnologia diventano i mezzi decisivi per armare la volontà di potenza: è qui che l’antropocentrismo trova la sua elaborazione più potente, andando ben oltre le formulazioni premoderne legate soprattutto alla teologia monoteistica. Quando Francesco Bacone, all’alba della modernità, annuncia che il compito dell’uomo è quello di imitare il più possibile l’onnipotenza di Dio tramite la tecnoscienza, per diventare egli stesso superpotente ad immagine di Dio, l’intima connessione tra teologia monoteistica, dominio tecnoscientifico e antropocentrismo diventa evidentissima.
A partire da istanze culturali di questo tipo, ha inizio un gigantesco processo di rimozione dei “limiti” e di espansione economica, tecnologica, scientifica, demografica, il tutto a danno della natura e del mondo non umano in generale, che vengono via via ridimensionati e rimodellati ad uso umano: il resto è storia dei nostri giorni. Noi rappresentiamo il prolungamento, forse la fase finale, di un progetto di dominio e di espansione illimitata, iniziato alcuni secoli addietro. Non si può capire pienamente la tendenza fondamentale del nostro tempo – cioè la crescita illimitata – se si dimenticano queste premesse di fondo, che hanno alimentato innumerevoli speranze e illusioni in un mondo migliore. Noi oggi abbiamo il privilegio/responsabilità di verificare che questa portentosa spinta in avanti si è conclusa, e che essa, nonostante alcuni notevoli successi, non ha comunque dato i frutti sperati, ma ha riempito la Terra di rovine e inquietudini con cui fare urgentemente i conti.
Per usare il linguaggio di antiche saggezze che sono state scioccamente derise, siamo in presenza di un enorme squilibrio cosmico, dovuto al fatto che alcune “energie” (umane, economiche, tecnologiche ecc. ) sono cresciute in modo abnorme, alterando armonie ancestrali con esiti incontrollabili. Nel corso di questa operazione di verifica dei nostri limiti, necessaria quanto in parte già avviata, è altresì doveroso rivalutare l’importanza dei saperi tradizionali, legati ad economie di sussistenza, che hanno garantito la sopravvivenza di molti popoli in condizioni difficili per secoli e millenni: sono proprio le scienze attuali più avanzate, quelle rivolte alla sostenibilità, a riconoscere che su questo terreno abbiamo molto da imparare dalle saggezze e dai saperi preindustriali, dotati di una straordinaria esperienza per quanto riguarda la vita a contatto con la natura e con le sue regole. Un’esperienza che noi abbiamo perduto, essendoci affidati unicamente alla tecnologia, e ritenendo che questa potesse costruire un secondo mondo, quasi sostitutivo di quello naturale.
Il nostro tempo esige un riequilibrio, un passaggio dall’età dell’eccesso a quella della moderazione, della sufficienza, del bastevole: occorre riassorbire entro limiti di compatibilità quanto è andato fuori misura: troppi prelievi di risorse, troppi sprechi, troppi consumi, troppo gigantismo economico e tecnologico, troppo protagonismo umano. Non sarà facile: si tratta di ridiscutere le idee basilari che hanno strutturato il sapere di sfondo della modernità, orientato in senso antropocentrico e sviluppista. Nel tentare questa operazione epocale di risanamento, le saggezze cosmo centriche, incentrate sul senso del limite, ci vengono in soccorso: sarà giocoforza cercare di rivalutarle e riattualizzarle, con tutta la creatività di cui saremo capaci.
Letture essenziali
Mario Alcaro, Filosofie della natura, manifestolibri, Roma, 2006.
Fritjof Capra, Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano, 1984.
Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecosfera e rivoluzione scientifica. Dalla natura come organismo alla natura come macchina, Garzanti, Milano, 1988.
Cristiano Viglietti, Il limite del bisogno, il Mulino, Bologna, 2011.
Luigi Zoja, Storia dell’arroganza, Moretti e Vitali, Milano, 2003.
9. Qual è l’autorità che può stabilire la “giusta misura”?
Nessuno potrà farlo da fuori e dall’alto, ma tutti assieme, seguendo metodi e procedure di autogoverno e autogestione comunitaria.
Nell’Edipo re Sofocle scriveva: «Chi vuole vivere oltre il limite giusto e la misura perde la mente ed è in palese stoltezza». Vero, ma chi può dire oggi di avere l’autorità scientifica, politica e morale per imporre il “limite giusto”, la soglia della good enough society, del sufficiente, del bastevole? Un tempo religioni autoritarie e sovrani si arrogavano tale funzione; poi è venuta la razionalità scientifica, che è diventata un’altra forma di fede e di religione [vedi Faq n.8]. Oggi, che pretendiamo di essere donne e uomini emancipati, liberi da vincoli non volontari, abbiamo capito che serve anche la democrazia, cioè la capacità di condividere equamente tutto ciò di cui disponiamo.
Dobbiamo imparare a produrre ciò di cui abbiamo bisogno con ciò che abbiamo a disposizione, senza sottrarlo ad altri, senza generare iniquità. Se necessario, dobbiamo imparare ad autolimitare i nostri sconfinati desideri [vedi Faq n.3] ed evitare di danneggiare gli altri.
C’è un rapporto stretto tra decrescita e democrazia, quindi. La via della diminuzione dell‘impatto delle attività umane sull’ambiente naturale, infatti, può essere percorsa in vari modi. Come già avviene oggi, in modo disordinato, inconsapevole e imposto alle popolazioni, attraverso gli automatismi del mercato che aumentano i prezzi dei prodotti petroliferi, delle commodities alimentari, delle terre fertili, dell’acqua, man mano che le “materie prime” naturali si fanno sempre più rare e preziose. Ma in tal modo emergono enormi iniquità tra chi può comunque accedere ai mercati e i più poveri che ne sono esclusi; per di più, affidandosi alle regole della domanda e dell’offerta, non è possibile garantire una diminuzione reale del volume complessivo di materie prelevate e di scorie rilasciate nell’ambiente naturale. Invece, nella visione del progetto politico della decrescita consapevole, è possibile immaginare di guidare il percorso di rientro delle attività antropiche entro i limiti della sostenibilità ecologica in modo informato, condiviso, equo. In una parola: democratico.
Nel primo caso – che chiamiamo recessione selvaggia – l’autorità che decide chi può aumentare i propri consumi e chi no è la mano invisibile del mercato, ma noi sappiamo bene che in realtà si tratta di quella elite planetaria seduta nei consigli di amministrazione del ristretto gruppo delle grandi compagnie multinazionali che guidano l’andamento dell’economia globalizzata (meno di 500 corporations controllano più del 50% degli scambi internazionali).
Nel secondo caso, la conversione ecologica del sistema economico avviene con modalità partecipate lungo un cammino di giustizia ambientale e sociale indissolubilmente legate, tenendo conto delle differenti impronte ecologiche ed anche del “debito ecologico” che le popolazioni più industrializzate hanno accumulato nel tempo nei confronti di quelle che hanno subito processi di impoverimento. Per procedere lungo questo cammino servirebbero accordi internazionali e autorità sovranazionali competenti, imparziali e improntati dall’etica del bene comune. Programmi come lo United National Development Programme e le agenzie dell’Onu avrebbero dovuto svolgere questo ruolo seguendo i principi della Carta dei diritti dell’uomo del 1948. Una messe di Dichiarazioni (tra cui quella di Rio sull’ambiente e lo sviluppo), di Convenzioni (tra cui quelle sulla biodiversità e il cambiamento climatico), di Protocolli (tra cui quello di Kioto) e di Agende (tra cui quella per il XXI secolo) avrebbero dovuto indicare obiettivi e tempi della marcia verso la sostenibilità. In realtà, come ben sappiamo, le autorità effettive e gli stati più forti e i più influenti si sono ben guardati dal mettere in pratica anche le più blande tra le indicazioni fornite dalle Nazioni Unite.
Il plateale fallimento delle politiche ambientali nazionali e transnazionali ha giustificato la nascita di una corrente di pensiero che ritiene impossibile attuare politiche di decrescita con il consenso delle popolazioni interessate, dato che quest’ultime non accetterebbero mai limitazioni ai loro illimitati desideri di crescita dei redditi e dei consumi. Secondo costoro l’essere umano sarebbe egoista per natura e il genere umano sarebbe antropologicamente portato a cercare di possedere quantità sempre maggiori di oggetti e di servizi a propria ed esclusiva disposizione, pertanto nessun governo riuscirà mai con le buone maniere a chiedere comportamenti e stili di vita più sobri, razionali e meno dispendiosi. Da qui l’invocazione di una “dittatura benevola “ (già vista come una necessità da Hans Jonas), di un “dispotismo tecnocratico illuminato” (Hubert Védrine), di un governo guidato da ecocrazie autoritarie, espertocrazie postdemocratiche ecc. Esiste quindi un’ecologia e una decrescita autoritaria e di destra, fondata su una visione pessimistica del genere umano. Molti anni fa Dario Paccino chiamava “ecofascisti” quei politici che evocano la questione ambientale restando incuranti delle reali condizioni sociali in cui vivono le persone più svantaggiate.
Noi, al contrario, siamo persuasi che una trasformazione socioeconomica profonda possa avvenire solo partendo dalla presa di coscienza di ciascun individuo. La decrescita si sostanzia in innumerevoli micropratiche di cittadinanza attiva, sperimentando quotidianamente modi di produzione sociale, senza fini di lucro, di beni e servizi utili per sè e per gli altri [vedi Faq n.17]. La società della decrescita, che punta a raggiungere un equilibrio con la biosfera, è necessariamente una società autogovernata, con un più alto – e non un più basso – tasso di democrazia.
L’unica “autorità”, quindi, che può decidere quanto prelevare, quanto consumare, quanto restituire nell’ambiente naturale esterno è la comunità degli abitanti, che nei loro territori ne conoscono le potenzialità e ne rispettano i limiti.
Letture essenziali
Tiziana Banini, Il cerchio e la linea. Alle radici della questione ecologica, Aracne, Roma, 2011,
Cornelius Castoriadis in La rivoluzione democratica. Teoria e progetto dell’autogoverno, a cura di Fabio Ciaramelli, Eléuthera, Milano, 2001.
Takis Foropoulos, Per una democrazia globale, Elèutera, Milano, 1999.
Hans Jonas, Il principio di sovranità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1990.
Alberto Magnaghi (a cura di), Il territorio dell’abitare. Los viluppo locale come alternativa strategica, Franco Angeli, Milano, 1991.
Dario Paccino, I colonnelli verdi, Antonio Pellicani, Roma, 1990.
10. Quale ruolo per la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico nella società della decrescita?
La ricerca va liberata dai condizionamenti del potere economico e le tecnologie vanno poste al servizio della preservazione della vita.
La nostra società è sempre più dipendente da tecnologie “insostenibili”, che sprecano energia e risorse e producono inquinamento e rifiuti: ci attendono quindi sfide enormi per evitare una grave emergenza climatica ed ecologica. Occorre intraprendere un percorso di riconversione e trasformazione delle basi materiali e culturali delle società cosiddette “sviluppate” – ma soprattutto sviluppiste – evitando che i nostri errori siano ripetuti in futuro. A questo scopo è necessario l’emergere di un nuovo paradigma scientifico, coerente con la prospettiva della decrescita e capace di sviluppare tecnologie appropriate e condivise dalla collettività, che sancisca il superamento del vecchio, nato circa due secoli fa, che si è invece basato sul riduzionismo e sul meccanicismo ed è divenuto punto di riferimento anche per l’economia.
La visione meccanicista e determinista della realtà, che pure ha garantito notevoli progressi tecnici, era funzionale a una società nata dalla rivoluzione industriale, dove lo scopo principale della scienza e della tecnologia era quello di fornire all’uomo strumenti per dominare e sottomettere la natura. Questa visione, divenuta ideologia nel liberismo, induce a credere che la tecnica sia in grado di risolvere ogni problema, sociale, ambientale o sanitario, in un mondo dove energia e materie prime sono ritenute sempre disponibili e praticamente infinite. C’è in tutto ciò un irrazionale e irresponsabile ottimismo, che rende credibile una crescita incessante della produzione industriale e fa pensare che qualunque effetto negativo arrecato all’ambiente o alla salute umana possa essere risolto dalla scienza e dalla tecnica. Nell’impostazione meccanicista non c’è spazio per la prevenzione e per la precauzione, ma solo per interventi che curino i danni già provocati (inquinamenti, malattie, ecc.) e che richiedono nuove produzioni e nuovi consumi facendo crescere il PIL, l’unico vero parametro da osservare per l’economia liberista.
Questa ideologia riduce a merce la natura e i beni comuni, come l’acqua che beviamo e i corpi dei viventi, umani e non umani: si pensi alla brevettabilità di geni, cellule, tessuti ecc. A questa visione mercantile della scienza e della natura occorre contrapporne una nuova, in cui l’essere umano non sia né padrone né schiavo della natura, ma semplicemente, come essere vivente, interagisca con il suo ambiente, anche modificandolo, e, come essere pensante e quindi responsabile delle proprie azioni, ne rispetti regole e criteri, come per esempio i cicli biogeochimici, che permettono un uso razionale delle ricchezze naturali.
La nuova concezione della conoscenza non sarà pertanto volta alla manipolazione della natura e alla semplificazione dell’oggetto del suo studio, bensì ad approfondire le connessioni tra i diversi sistemi: alla rozza semplificazione dei fenomeni naturali occorre sostituire un’analisi della complessità di sistemi interagenti tra loro. Questa epistemologia naturale è una necessaria premessa per una società sostenibile, in cui le attività umane non riducano a merce ogni bene materiale e immateriale, ma sappiano inserirsi nei complessi e delicati equilibri dinamici presenti nell’ambiente naturale senza distruggerli, senza trasformare le risorse in rifiuti, senza ridurre la biodiversità degli organismi viventi o considerarli come macchine.
Attualmente la ricerca scientifica non può considerarsi libera e autonoma, perché dipende dai committenti, cioè da chi la richiede e da chi la finanzia, per lo più centri di potere economico e finanziario che non coinvolgono i cittadini e spesso neppure le comunità scientifiche. In modo analogo, le applicazioni tecnologiche di tali ricerche, coperte da brevetti o da segreti industriali, hanno un impatto sociale, ambientale e sanitario su tutta la popolazione, che però è esclusa dalle decisioni e spesso tenuta all’oscuro delle possibili ricadute.
Un nuovo modo di intendere la scienza richiede anche una committenza popolare e decisioni collettive sulle applicazioni tecnologiche, soprattutto in funzione delle esigenze sociali delle comunità, nel rispetto dell’ambiente e dei cicli biogeochimici. Inoltre, le conoscenze che possono emergere da tali ricerche devono costituire un bene comune che, come tale, non possono che essere liberamente messe a disposizione dell’intera comunità umana, senza barriere e senza processi di mercificazione.
La necessaria realizzazione di oggetti e di tecnologie sostenibili e realmente utili, che non mirino al profitto ma un giusto reddito per chi partecipa alla loro produzione, richiede un processo democratico partecipativo, che coinvolga tutta la collettività: i referendum sul nucleare e sull’acqua hanno evidenziato la maggiore saggezza della popolazione nel suo insieme rispetto ad economisti, ricercatori e tecnocrati. Le decisioni non devono essere prese necessariamente in modo referendario, ma soprattutto attraverso processi partecipativi che coinvolgano le comunità più direttamente interessate.
Tutto ciò non significa né rigida programmazione né censura imposte alla ricerca, bensì un’oculata gestione di ciò che è disponibile. Di fronte a proposte di ricerca o di studio plausibili e ragionevoli, ma con carenza di risorse, sono da preferirsi quelle più rispondenti all’esigenza di conoscere la realtà o capaci di realizzare tecnologie utili, ritenute più urgenti e più importanti dalla collettività, attraverso opportuni strumenti di verifica e di partecipazione.
Una società della decrescita non potrà fare a meno della scienza e della tecnologia, ma non potrà delegare a ricercatori, tecnocrati o a centri di potere economico la scelta delle ricerche da svolgere e soprattutto non potrà affidare a valutazioni esclusivamente scientifiche il proprio presente e il proprio futuro, nella consapevolezza che scienza e tecnologia non possono risolvere limiti naturali come l’esaurirsi delle risorse, ma solo rispondere a domande sociali in modo probabilistico.
Letture essenziali
Fritjof Capra, La scienza universale, Rizzoli, Milano, 2007.
Marcello Cini, Il supermarket di Prometeo, Codice edizioni, 2006.
S.O. Funtowicz, e J.R. Ravetz, Uncertainty and quality in science for policy. Kluwer, Dordrecht, The Netherlands, 1990.
C. Modenesi C. e G. Tamino (a cura di), Fast science. La mercificazione della conoscenza scientifica e della comunicazione, Jaca Book, Milano, 2008.
I. Prigogine e I. Stengers La nuova Alleanza, Einaudi, Torino, 1981.
Gianni Tamino, “Dalla scienza e conoscenza come “beni comuni” alla privatizzazione del sapere”, in: “La società dei beni comuni”(a cura di P. Cacciari ), Ediesse Carta, Roma, 2010.
11. Quale potrà essere il rapporto tra la nostra specie e le altre specie animali nella società immaginata dalla decrescita?
La decrescita presuppone una visione etica estesa a tutto il mondo animale, e implica buone pratiche di veganismo.
Se realmente si intende ripensare al modello sociale umano in una prospettiva decrescente, è d’obbligo mettere in discussione dalle fondamenta il rapporto che la specie umana ha intrattenuto con le altre specie, in primis animali. La società capitalistica – ma non solo quella, e la storia lo insegna – si fonda su una visione antropocentrica basata sulla supremazia della specie umana sulle altre, quale modello di ogni altra forma di controllo e di dominio. Il controllo può esser inteso come possibilità di regolare a piacimento il ciclo biologico di altri viventi, al fine di ridurre animali e piante a mere risorse. Il dominio è la diretta conseguenza della pratica del controllo, ed emerge quando si nega ogni possibilità identitaria e ogni esigenza specifica all’altro, al diverso da sé.
Per potersi sviluppare senza limiti, la società umana ha sempre avuto bisogno di schiavizzare gli animali: la società moderna, infatti, nasce nel momento stesso in cui si coltivano le terre e si addomesticano gli animali. Il processo di domesticazione è il primo vero salto paradigmatico, che lacera il contatto diretto con la natura e pone la specie umana a un livello superiore alle altre. In tal senso il neolitico rappresenta per l’umano un punto di svolta: da allora, prima il controllo e poi il dominio hanno permesso alla nostra società di disporre della quasi totalità delle forme di vita del nostro pianeta.
L’animale come risorsa, come merce, come valore – non si dimentichi che l’etimologia del termine capitalismo rimanda al capo di bestiame come valore di scambio – è una costante di ogni struttura organizzativa della società umana, perché rappresenta la base su cui si erge l’intero edificio economico e sociale. La nostra esistenza è pervasa dagli animali, anche se non li vediamo: li mangiamo, li indossiamo, li trasformiamo, li sezioniamo e controlliamo, il tutto per ricavarne beni e servizi, ma la dicotomia umano/animale è palesemente un’aberrazione, perché è la nostra stessa biologia a confermarci che noi stessi siamo animali.
La nostra volontà di dominio è quindi la causa non solo d’indicibili sofferenze animali, ma anche d’immani sofferenze umane, perché non esiste un limite netto, e non può esistere, tra chi subisce tra i non umani e tra chi subisce tra gli umani. La nostra storia insegna in modo chiaro che discriminazioni intraspecifiche come il razzismo o il sessismo hanno come presupposto storico lo specismo, ossia la discriminazione in base alla specie di appartenenza che l’umano ha sempre posto in essere per sfruttare gli altri animali, ovvero la convinzione antropocentrica che gli umani godano di uno status morale superiore – e quindi di maggiori diritti – rispetto agli altri animali.
Lo sfruttamento del mondo animale non è certo la sola causa della costruzione di una società umana ingiusta, violenta e prevaricatrice, ma di sicuro nessuna società classista dello sviluppo sarebbe potuta nascere e svilupparsi senza la sottomissione degli animali e il loro sfruttamento.
Una nuova società decrescente è una società non più verticale, ma orizzontale, dove la nostra specie avrà di nuovo la possibilità di entrare in contatto con gli altri esseri viventi in modo paritario e rispettoso. Una società libera e liberata dal paradigma della crescita è una società libera e liberata dal dominio e dalla volontà di dominio, e pertanto liberata anche da tutte le pratiche che esso comporta.
Gli animali non potranno che essere considerati come individui – ovvero esseri unici indivisibili – con specificità, soggettività ed esigenze proprie, e non più come risorse o merci da utilizzare a nostro piacimento: pertanto non potranno più essere uccisi, mangiati, indossati, imprigionati e sfruttati. La nuova società umana diverrà pacifica e pacificata solo se sarà posto termine alla lunga e terribile guerra che abbiamo portato avanti contro chi non appartiene alla nostra specie.
In tal senso le buone pratiche da attuare anche nell’immediato possono essere molte, prima tra tutte il veganismo etico con tutte le sue derivazioni.
Letture essenziali
Jim Mason, Un mondo sbagliato. Storia della distruzione della natura, degli animali e dell’umanità. Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2007.
Charles Patterson, Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’olocausto, Editori Riuniti, Milano, 2003.
Jeremy Rifkin, Ecocidio, Oscar Mondadori, Milano, 2001.
Tom Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2005
12. Cosa dice la decrescita della proprietà?
Bisogna distinguere tra beni e servizi essenziali alla vita delle comunità e beni personali d’uso corrente. I primi devono essere gestiti in modo condiviso.
Senza dubbio l’attuale sistema economico si fonda sull’istituzione giuridica della proprietà, tanto privata quanto pubblica/statale, e nella società contemporanea è stretto il legame tra ragione economica, proprietà, potere.
Tra il XVI e il XVII secolo, la proprietarizzazione (enclousures) dei beni prima utilizzati in forme comunitarie (commons) è stata giudicata dagli storici l’atto di nascita del capitalismo industriale. Da allora, massimizzare le rese è diventata lo scopo dominante della cooperazione sociale, la funzione prima dell’ordinamento giuridico statale, la missione dell’imprenditore (privato o pubblico) che così giustifica lo sfruttamento di risorse umane e naturali. Tutto deve mirare ad accrescere costantemente la produttività dei “mezzi” e dei “fattori” di produzione, in modo tale da riversare sui mercati una quantità sempre maggiore di beni e servizi da «donare all’umanità», secondo la visione di John Locke, uno dei principali teorici del capitalismo delle origini.
In molti, da Tommaso Moro a Proudhon, contestarono già allora questa visione e oggi molti scienziati sociali “critici dello sviluppo” ne hanno tratto un bilancio obiettivo, sulla scorta dei suoi risultati effettivi, ovvero: colonizzazione ed esproprio delle popolazioni native; disintegrazione delle economie e delle culture non omologabili; saccheggio degli stock di “materie prime” e rottura dei sistemi ecologici (perdita di biodiversità); aumento demografico delle popolazioni impoverite; aumento delle disparità sociali tanto a scala globale, quanto nei singoli stati. È possibile dimostrare, quindi, come i vantaggi del sistema economico industriale siano andati a un numero relativamente ristretto di individui, mentre i suoi costi ambientali e sociali (“esternalità negative”, li chiamano gli economisti, un po’ come gli “effetti collaterali” sui civili provocati dalle guerre) siano stati e continuino a essere molto elevati.
I sostenitori della decrescita ritengono pertanto che la proprietà privata debba essere considerata molto realisticamente per quello che concretamente comporta: un artificio giuridico che va verificato senza tabù ideologici, in funzione degli obiettivi che la società intende perseguire. Più precisamente, è possibile affermare che la privatizzazione dei beni comuni naturali (suoli fertili ed edificabili, acque, atmosfera ed etere, giacimenti minerali, foreste, fauna selvatica, sementi, fino al genoma umano) si è rivelata la vera tragedia dell’umanità. L’aver concepito il privilegio nello sfruttamento delle “risorse naturali”, e averlo addirittura concesso in esclusiva ad alcuni gruppi d’individui ha privato le comunità locali presenti e future dei mezzi indispensabili al proprio autosostentamento da un lato, e dall’altro ha accelerato l’entropia del sistema biogeofisico [vedi Faq n.10].
Analogo giudizio negativo merita il processo di “nuova accumulazione originaria” in atto con la privatizzazione dei beni comuni culturali: saperi, opere d’arte, codici, lingue, fino ai prodotti dell’ingegno umano. La loro sottrazione tramite brevetti, copyright e artifici vari (per esempio i decoder) impedisce che i loro prodotti possano essere usati da tutti, moltiplicarsi (come avviene con i sistemi open source e creative commons ) e andare a vantaggio dell’intera umanità. Per di più la privatizzazione delle ricchezze naturali e culturali le inserisce nel circuito della valorizzazione mercantile, così che la stessa scienza è inevitabilmente orientata a “inventare” applicazioni tecnologiche utili alla massimizzazione dei profitti. Ma non è affatto detto che l’interesse monetario del singolo proprietario coincida con l’interesse generale: anzi, contrariamente a quanto pensava Locke, il proprietario dei dieci acri di terreno – proprio perché “proprietario” – non vorrà né potrà “donare” il suo prodotto all’“umanità”, ma tenterà di farselo pagare il più possibile, innescando il micidiale meccanismo della produzione finalizzata al profitto.
In senso lato potremmo dire che anche i mezzi di produzione, sia tecnici che organizzativi, in quanto permettono la formazione di una “forza collettiva”, dovrebbero essere considerati come beni di appartenenza comune, quindi da sottrarre alla logica dell’arricchimento privato. Poiché la produzione è necessariamente collettiva – diceva Proudhon – “il capitale è una proprietà sociale”, e oggi potremmo dire che anche l’impresa, in quanto associazione di competenze, abilità, lavori diversi ma complementari e indispensabili, è un bene comune.
Detto questo a proposito della grande “categoria” dei beni comuni, per quanto riguarda tutti gli altri beni, oggetti e servizi di uso prettamente personale, il loro uso esclusivo e la loro proprietà privata è giustificabile. Difficile condividere in molti un paio di scarpe o un piatto di minestra, e lo stesso Karl Marx distingueva tra “proprietà privata capitalistica” e “proprietà privata individuale”, con la prima fondata sull’appropriazione e sullo sfruttamento del lavoro altrui, e la seconda acquisita col proprio lavoro personale, utile per sé e in cooperazione con altri, nel pieno controllo dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso. Sono i modi di produzione capitalistici, quindi, che privatizzando i commons e tutti gli altri mezzi di produzione espropriano il lavoratore dal frutto del suo lavoro, dalla possibilità di disporre dei propri prodotti.
La decrescita, pertanto, indica una strada di liberazione delle ricchezze naturali e culturali dai recinti proprietari sia privati che pubblici/statali, in direzione di una società capace di autogestire le proprie ricchezze in forme cooperative, condivise e solidali.
Le forme con cui si può accedere all’uso personale di beni e servizi sono molte, non sempre e necessariamente quelle del possesso in esclusiva o della proprietà individuale. Pensiamo, ad esempio, alla grande categoria degli usi civici: proprietà private per il Codice civile, ma gestione pubblicistica a tutti gli effetti. Pensiamo a un’altra grande categoria dei beni gestiti in cooperative di proprietà indivise, inalienabili, ma non per questo “collettivizzati”. Insomma, è possibile immaginare forme e modi di gestione dei beni e dei servizi che superino il dominio assoluto della proprietà su ogni cosa, oggetto, bene, relazione, forma di vita.
Letture essenziali
Enrico Grazzini, Il bene di tutti, Editori Internazionali Riuniti, Roma, 2011.
Alberto Lucarelli, Beni comuni. Dalla teoria all’azione, Dissensi, Viareggio, 2011.
Ugo Mattei, Beni comuni, un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011.
Karl Marx, Il Capitale, libro I (1867).
Pierre Joseph Proudhon, Che cos’è la proprietà (1840), in: Pierre Ansart, P-J Proudhon, La Pietra, Milano, 1978.
13. Cosa pensa la decrescita del potere delle banche e del ruolo del denaro?
La decrescita propone la riappropriazione collettiva delle istituzioni monetarie attraverso una loro ricostituzione politica democratica, partecipata, responsabile ed ecologica.
É ormai ben noto il ruolo determinante esercitato dal sistema finanziario e dalle banche nell’amplificare l’attuale crisi economica. Probabilmente la responsabilità principale va individuata nella gestione truffaldina e fallimentare di un’istituzione che è – o dovrebbe essere – pubblica come il denaro, ma che è stata piegata a fini particolaristici, speculativi, scaricando i costi sulla collettività e consentendo a pochi agenti finanziari privi di scrupoli l’accumulo di fortune enormi.
Da anni masse abnormi di denaro-debito emesse liberamente e sconsideratamente dalle organizzazioni finanziarie stanno alimentando un aumento ipertrofico delle attività speculative, una crescita continua dei prezzi delle risorse oggetto di speculazione, finendo per rendere “scarse” le stesse masse monetarie necessarie a far funzionare tutto il sistema. Anche le vecchie “casse di risparmio” e le piccole banche regionali si sono fatte in gran parte coinvolgere nella grande truffa globale, arrivando a dilapidare gran parte dei risparmi accumulati dalle famiglie, soprattutto statunitensi ma anche italiane, e ampliando la situazione debitoria globale.
Dobbiamo però tener presente che il circolo vizioso che si stabilisce tra attività bancarie, denaro e debito non dipende solo dalle condizioni della crisi attuale, ma è riguarda la stessa prospettiva della crescita economica capitalistica. Il pagamento d’interessi sul denaro-debito costringe tutti a rilanciare lo sfruttamento di ogni risorsa disponibile, anche in fase di stagnazione, e porta ad alimentare i processi inflazionistici che richiedono interessi sempre più alti, amplificando condizioni ormai endemiche di crisi e di debito, pubblico e privato, e rilanciando i processi di sfruttamento e il degrado ambientale in una spirale perversa apparentemente inarrestabile.
Anche per fronteggiare il problema del pagamento di tassi d’interesse esosi e per cercare di ricostituire legami sociali più solidali equi e responsabili, sono andate delineandosi ormai da alcuni decenni ipotesi ed esperienze di una pluralità di sistemi monetari o pseudo monetari locali, basati su principi di solidarietà ed equità e senza interessi né inflazione. All’interno dello stesso movimento italiano per la decrescita sono state elaborate ipotesi per lo sviluppo di nuove strumentazioni monetarie che potessero risultare compatibili con i bisogni comunitari, le esigenze dei territori e le prospettive di riconversione/riqualificazione delle istituzioni economiche, incluse quelle monetarie, per renderle più compatibili con una cultura ecologica.
Al di là della comune convergenza verso ipotesi di monete solidali, senza interessi e senza inflazione, generalmente radicate su dimensioni territoriali limitate, bisogna ricordare che esistono ipotesi e sperimentazioni di monete locali abbastanza diverse tra loro, sia nella considerazione del ruolo che possono svolgere i sistemi monetari o pseudo monetari ispirati a principi di solidarietà, equità ed ecocompatibilità, sia nel rapporto che questi possono sviluppare con i sistemi monetari ufficiali. Ci sono infatti approcci o concezioni di monete locali che intendono porsi in qualche modo in alternativa o competizione rispetto alle forme monetarie ufficiali, e altri che si muovono in un’ottica di complementarietà, al fine di aumentare i livelli di occupazione e rilanciare le economie locali. É specialmente quest’ultimo tipo di approccio che sta prevalendo tanto nella ricerca quanto nelle pratiche concrete, come avviene nel caso degli SCEC, sperimentati da qualche tempo in Italia, mentre è poco considerata l’ipotesi abbastanza realistica che le stesse monete complementari possano sostenere le dinamiche accrescitive e inflazionistiche dominanti piuttosto che ridurle.
Va detto che, tranne pochi casi isolati, l’impatto pratico delle monete complementari o alternative è risultato complessivamente scarso, non solo nel tentativo di contrastare lo strapotere del sistema finanziario speculativo, ma anche nel fronteggiare le stesse condizioni di crisi. Gli obiettivi solitamente perseguiti sono stati e sono in genere molto limitati, forse troppo limitati rispetto ai costi ridotti ma comunque necessari per attivare un sistema di monete complementari, e anche rispetto alle esigenze di cambiamento che si impongono oggi. Tuttavia il potenziale delle esperienze di sistemi monetari alternativi, specialmente dei sistemi di crediti mutuali e comunitari, resta però enorme, proprio alla luce degli sviluppi estremamente contradditori, manifestamene disfunzionali ed apertamente dissipativi degli attuali sistemi di credito monetario, intrecciati indissolubilmente con i destini fallimentari della finanziarizzazione speculativa globale.
Un sistema di crediti comunitari senza interessi, gestito da governi locali e basato su proprie unità di misura del valore dei beni/servizi scambiati (come ore di lavoro convertibili in livelli retributivi medi) potrebbe non solo attivare “lavoro inoccupato” per soddisfare bisogni legati alla fruizione dei patrimoni ambientali, ma anche finanziare una parte considerevole delle spese pubbliche per la cura dei beni comuni. Potrebbe aiutare a sviluppare un sistema di accantonamento previdenziale liberato dall’inflazione e dall’inevitabile destino dissipativo che attende tutti i fondi pensione stretti nelle spire della speculazione finanziaria globale. E potrebbe infine contribuire al recupero di un patrimonio abitativo comune, rilanciando relazioni mutuali e cooperative negli ambiti comunitari locali e portando a ridurre drasticamente i costi sostenuti per il bene casa.
Le banche etiche possono svolgere un ruolo importante in questo processo, sicuramente difficile e lungo, così come possono risultare utili le attuali campagne contro la finanziarizzazione speculativa del risparmio o per la ricontrattazione del debito, pubblico e privato, così da far maturare condizioni favorevoli alla messa in discussione dell’egemonia finanziaria globale. È comunque necessario ridimensionare drasticamente lo strapotere dello stesso sistema finanziario, fino a toccare il nodo centrale di una rifondazione delle istituzioni monetarie e del credito, partendo dalla ridefinizione della stessa natura del denaro e arrivando a sviluppare pratiche di finanziamento e sistemi di credito non complementari ma alternativi rispetto alle strumentazioni monetarie e finanziarie dominanti.
Parlare di sistemi pseudo monetari e di credito alternativi non significa solo pensare di superare le forme monetarie esistenti, ma più in generale richiede lo sviluppo di sistemi di scambio e di determinazione economica dei valori di scambio (di attività e beni) almeno in parte sostitutivi di quelli ufficiali, di modo che ogni scambio e credito in forma alternativa implichi di fatto una riduzione dei volumi monetari finanziari complessivi, ma non dei bisogni e delle attività di cura, relazione e servizio. Questo avviene già, anche se in misura molto limitata, con i sistemi di banche del tempo, le cui potenzialità potrebbero essere enormi se supportate da strumentazioni e attività di progettazione e di cooperazione collettive adeguate. Si tratta di ipotesi ancora in parte utopiche, ma non possiamo sperare di affrontare adeguatamente la questione dello sganciamento dalle pratiche dissipative di risorse e distruttive di comunità, veicolate dagli attuali sistemi finanziari, se non sapremo ripartire dalla ricostituzione di un progetto politico comune, volto alla programmazione di un impiego economico sostenibile delle risorse disponibili su base territoriale.
Letture essenziali
Massimo Amato e L. Fantacci, Monete complementari per i DES, Centro di ricerca di BPE.
Andrea Baranes, Breve storia della crisi, in: Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi, Minimum fax, Roma, 2012.
E. Backes, e D. Robert, Soldi, Il libro nero della finanza internazionale, Nuovi mondi Media, Viterbo, 2004.
Domenico De Simone, Un’altra moneta, Malatempora, Roma, 2003.
A. Fumagalli, C. Marazzi e A. Zanini, La moneta nell’impero, Ombre Corte, Verona, 2006.
Serge Latouche, Per un abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
Bernard Lietaer, The future of Money, Century, London, 2001.
Margrit Kennedy, La moneta libera da interessi e da inflazione, Arianna Editrice, Casalecchio, 2006.
Maurizio Ruzzene, Monete, in AAVV: Il dolce avvenire, Diabasis Parma 2009
Siti attinenti: www.sbankiamoli.it , www.nonconimieisoldi.org, www.rivoltaildebito.org
14. Che ruolo avrà l’immaginario?
Tra l’incubo della catastrofe e la fede insensata nel progresso, l’alternativa è concepire un pensiero davvero libero.
Nella società di mercato siamo tutti spinti a pensarci come consumatori: di prodotti, di immagini, di politica, di relazioni. Gli esseri umani stessi, alla fine, divengono prodotti di consumo, si esibiscono e si reclamizzano, si comprano e si vendono, si usano e si gettano, come qualsiasi altra merce. Naturalmente nessuno di noi, nemmeno l’individuo più intossicato dal consumo, è solo questo, ma ci comportiamo come se fosse così. Sperimentiamo una forte difficoltà a immaginarci tranquilli se non siamo circondati da tutta una serie di oggetti e di segni che costituiscono il nostro mondo e i nostri strumenti. Fatichiamo sempre più a relazionarci tra di noi senza un piacere immediato o senza un qualunque fine strumentale. C’è come un’assuefazione a certi modi di vedere, a certi obiettivi condivisi, ma soprattutto certe abitudini, entrate passo dopo passo nella nostra vita, ci impediscono d’immaginare qualcosa di diverso: parlare in termini di utilità, di profitto, di guadagno, di azioni, d’investimenti, di prestiti, di rate, di tassi di interessi, di crescita, di spread, di derivati, sembra divenuto così comune che la gente non fa più caso a come questo immaginario abbia intossicato il nostro stesso linguaggio, la nostra comunicazione, persino il pensiero della vita o di noi stessi.
Eppure un paradosso sta crescendo nel cuore del nostro immaginario. In effetti la civiltà che più di ogni altra ha preteso di proiettarsi nel futuro tramite la tecnologia e la ricerca spasmodica del nuovo con la svalutazione del passato, tramite l’ossessione per la crescita e una fiducia illimitata nel meccanismo del credito e delle scommesse finanziarie, in realtà si sta sporgendo di fronte a un baratro, con il dubbio di non poter sopravvivere a se stessa. Questa mercificazione pervasiva, estesa anche al futuro, finisce per minacciare l’esistenza stessa del presente. Come affermano gli psicoanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit, stiamo assistendo al «cambiamento di segno del futuro», ovvero al passaggio da un futuro-promessa al futuro-minaccia.
Una simile società non ha avvenire, non solo per ragioni ecologiche, ma anche per ragioni antropologiche e sociali, e non è affatto strano che i paradossi del nostro immaginario si trasformino in incubi. Il nostro inconscio collettivo è abitato dall’attesa della catastrofe: dalla letteratura al cinema, dai fumetti alla televisione, il nostro immaginario, il nostro inconscio collettivo, è saturo di immagini di (auto)distruzione. In qualche misura dunque percepiamo la smisuratezza della nostra potenza distruttiva ma non siamo in grado – o abbiamo paura – di disarmare la nostra civiltà, la nostra tecnologia, la nostra economia. Così il paradosso è che più l’immaginario del progresso, della crescita, dello sviluppo illimitato si spinge avanti, e più chiude l’immagine del futuro, svuotando e atrofizzando il senso del nostro essere umani. L’onnipotenza si capovolge in minaccia contro se stessi, l’illusione della libertà assoluta si tramuta in depressione.
Oggi è necessario fuggire non da uno ma da due incubi. Parlo dell’assuefazione alla catastrofe, nella sua doppia forma della denegazione dell’ottimista tecnologico (“Non esiste nessuna crisi ecologica, nessun cambiamento climatico, nessun picco del petrolio, nessuna estinzione delle specie… la scienza troverà la soluzione, la tecnologia ci salverà”) o del compiacimento, dell’attrazione fatale per l’autoannichilimento (“Non c’è niente da fare, il mondo continuerà anche senza di noi”). In effetti non solo la fiction, ma anche la scienza si risolve sempre di più a gestire la catastrofe senza prevenire, offrendoci strumenti per adattarci alla nuova situazione, palliativi per ritardare il peggio. “Una tale scienza – come aveva previsto Guy Debord – può soltanto accompagnare verso la distruzione il mondo che l’ha prodotta e che la possiede; ma è costretta a farlo a occhi aperti”.
L’immaginario della decrescita rappresenta oggi il tentativo di trovare un’alternativa a questi due incubi insensati, un ottimismo superficiale e in fondo violento e un pessimismo consolatorio. La realtà dolorosa è che almeno nei paesi più sviluppati non dobbiamo batterci solo contro le multinazionali, contro i governi, ma anche contro le nostre abitudini, i nostri stili di vita, le nostre scelte quotidiane, i nostri pensieri, e le centinaia di atti irriflessi che compiamo ogni giorno.
In questa prospettiva, ciò che è difficile oggi non è tanto immaginare un futuro alternativo, ma piuttosto concepire la nostra liberazione dalla rete di assuefazioni e dipendenze che ci siamo costruiti. Il pensiero stesso che tante cose, oggetti, abitudini, sicurezze potrebbero scomparire molto velocemente e costringerci in tempi brevi a modificare le nostre abitudini, a riorganizzare le nostre vite, ci è in buona misura inconcepibile. Per questo, per andare incontro al cambiamento, dobbiamo esercitare il nostro immaginario volgendo gli occhi contemporaneamente verso l’interno e verso l’esterno: a ciò che accade nel mondo attorno a noi, a ciò che accade dentro di noi, a ciò che accade nell’interazione continua fra i due.
Il tema della decrescita si gioca non in una versione negativa – a contrario – della società della crescita, ma nella costruzione di una pratica sociale più ricca e appassionata, di ciò che può nascere tra di noi, a partire da chi siamo e da quanto siamo disponibili a metterci in gioco. Da questo punto di vista, coloro che si raffigurano la decrescita come una proposta generosa ma utopista, e chi al contrario la immagina come una forma di autocastrazione o di automutilazione, sono entrambi in errore. La decrescita è la riscoperta del desiderio di vivere attraverso l’accettazione profonda della finitezza, della contingenza e dunque della fondamentale fragilità della vita.
Letture essenziali
Gunther Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, p. 252.
Miguel Benasayag, Gerard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005.
Guy Debord, Il pianeta malato, nottetempo, Roma, 2007.
Marie-Louise von Franz, Il mondo dei sogni, Tea, Milano, 1996.
Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma, 2002.
15. Cosa può fare la decrescita al tempo della crisi permanente e sistemica (finanziaria, economica, ambientale)?
Non bastano più i cerotti. É necessario riconsiderare e riorientare nel suo insieme il sistema economico e sociale, partendo da nuovi principi etici ed ecologici.
L’Occidente, il “primo mondo”, le economie di più antica industrializzazione, il sistema neoliberale capitalistico – chiamiamolo come vogliamo – sono entrati in una crisi profonda, non congiunturale e non superabile somministrando ricette preconfezionate. Siamo in presenza di una crisi persistente, multifattoriale, strutturale: crisi finanziaria e di solvibilità del debito; crisi economica, insieme di redditività e di sovrapproduzione; crisi energetica e delle materie prime; crisi alimentare, in cui i prezzi sempre più elevati delle commodities rendono difficile l’accesso al cibo per centinaia di milioni di persone; crisi idrica, con la desertificazione, la salinizzazione dei fiumi, l’inquinamento diffuso, e con prelievi eccessivi che assetano intere regioni del pianeta; crisi climatica, con emissioni di gas serra che hanno innescato un surriscaldamento dell’atmosfera, portando ad aumenti insostenibili della temperatura del globo e alla modifica delle correnti marine e dei venti; perdita di biodiversità, con la diminuzione della numerosità delle specie viventi animali e vegetali, marine e terrestri.
É evidente che tutte queste crisi sono correlate e producono un effetto moltiplicatore, così com’è evidente che l’imperativo della crescita economica a ogni costo stringe la morsa delle crisi ambientali e sociali. Dovremmo prendere atto che siamo già entrati in una economia post crescita, e abbandonare ogni illusoria nostalgia dell’irripetibile stagione della grande crescita del secondo dopoguerra. É ormai giunto alla conclusione un ciclo economico molto lungo, il che ci obbliga a riconsiderare il valore delle cose e il senso comune del benessere. Dovremmo imparare a vivere meglio con meno utilizzando ciò che si ha a disposizione, a prosperare senza sperperare, a usufruire senza dissipare, a soddisfare i nostri bisogni e i nostri desideri senza necessariamente cercarli negli scaffali dei supermercati. Insomma, un vero passaggio di fase storica che molti osservatori guardano come a un cambio di civiltà.
Il nuovo modello di civilizzazione dovrà invece poggiare su altri principi etici e sociali. Di fronte alla crisi, se vogliamo evitare tanto le psicopatologie depressive da “fine del mondo”, quanto le pesantissime conseguenze materiali sui redditi e sull’occupazione, il dovere di noi tutti è trovare soluzioni all’altezza della gravità della situazione e capaci da subito di invertire il declino. Nostra convinzione è che la decrescita possa rappresentare un’alternativa alla recessione valida per il “99%” della popolazione del globo, capace di offrire soluzioni sia su grande che su piccola scala, sia nel lungo periodo che nel breve. La decrescita, infatti, indica una direzione e un metodo: è una “matrice” – come dice Latouche – generatrice di soluzioni applicabili ovunque, misurabili da un lato con il “metro” della diminuzione dell’impronta ecologica e del consumo di natura, dall’altro con l’“orologio” che segna la redistribuzione dei carichi di lavoro tra occupati e inoccupati, tra uomini e donne [vedi Faq n. 7], tra lavoro eteronomo e lavoro scelto, comunitario, conviviale, utile per sé e per gli altri. In una parola, usando indicatori della qualità della vita “indifferenti al PIL”. Decrescita come progressiva dissociazione e affrancamento dall’economia di mercato e affermazione di un progetto di autonomia e autogoverno.
Nel concreto della crisi globale in atto, decrescita significa:
a) intervenire con tutti gli strumenti necessari per sgonfiare le “bolle finanziarie” e azzerare gran parte del debito pubblico, fino a ridimensionare la sfera monetaria riportando la funzione stessa del denaro alle sue origini di mezzo tecnico ausiliario per gli scambi, ma non finalizzato all’accumulazione e alla moltiplicazione della ricchezza.
b) avviare una conversione ecologica degli apparati energetici e produttivi per azzerare la dipendenza da fonti fossili; produrre beni che possano durare a lungo evitando ogni forma di inquinamento; coltivare in modi biologici e realizzare la maggiore autosufficienza produttiva su basi locali, senza aver paura di porre in essere misure di protezionismo ecologico e sociale a scala bioregionale [vedi Faq n.2];
c) azzerare l’idea stessa dell’economia come scienza autonoma autoreferenziale, per ricondurla a mero strumento contabile al servizio dei bisogni sociali autentici delle popolazioni, che sono: l’impiego di tutta la disponibilità di lavoro, l’equità distributiva, il rispetto della dignità degli individui, la responsabilità sociale e ambientale delle imprese. Nel concreto, si tratta di favorire la diversificazione dei modi di produzione, allargando tutte le forme di economia non profittevole, “solidale”, “civile”, “sociale”, non dipendente dal debito [vedi Faq n.17];
d) per usare le parole di Guido Viale, «progettare e praticare un diverso modo di vivere, di produrre, di consumare, di amministrare», cambiando comportamenti: da individui automi eterodiretti dal marketing a produttori e consumatori consapevoli,con vincoli di solidarietà, capaci di essere utili a sé e agli altri; cittadini che si prendono cura della preservazione dei beni comuni [vedi Faq n. 18];
e) da subito è possibile pensare a un piano del lavoro straordinario per creare posti di lavoro senza crescita, volto alla conservazione e alla messa in sicurezza dei patrimoni naturali, storico artistici e infrastrutturali, finanziato – oltre che con le politiche fiscali tradizionali – “fuori dall’Euro”, creando nuovi circuiti monetari pubblici nazionalizzati paralleli e indipendenti (monete complementari). Con la creazione, cioè, di una quota di ricchezza nazionale deglobalizzata e al riparo dai tentacoli della speculazione finanziaria [vedi Faq n.6].
Letture essenziali
Walden Bello, Deglobalizzazione. Idee per una nuova economia mondiale, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004.
Franco Cassano, L’umiltà del male, Laterza, Roma-Bari, 2011.
Tim Jeckson, Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente, Milano, 2011.
Serge Latouche e Didier Harpagès, Il tempo della decrescita, Elèuthera, Milano, 2011.
Serge Latouche, Manifesto del dopo sviluppo.
Serge Latouche, intervista su Altrapagina, ottobre 2011.
Henry Mayew, London Labour and the London Poor, 1850-53.
Marino Ruzzenenti, L’autarchia verde, Jaca Book, Milano, 2011.
Guido Viale, La conversione ecologica. NdA press, Rimini, 2011.
Wuppertal Institut, Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, Edizioni Ambiente, Milano, 2011.
www.rianeeisler.com
16. Come preparare la transizione, il passaggio, il cambiamento?
La rivoluzione è già al lavoro nelle micropratiche diffuse e nelle reti. Il bel libro di Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile (Blessed Unrest, in originale, traducibile letteralmente in “benedetta irrequietezza”), contiene la prima ed evidente risposta alla domanda sul come preparare la transizione e il cambiamento dal sistema capitalistico oggi dominante, a una società equa ed ecologicamente sostenibile. La transizione è già in atto, come felicemente descritto dalla metafora dello stesso Hawken del sistema immunitario che crea gli anticorpi alla malattia, provocata dal mito nefasto e irresponsabile della crescita infinita in un mondo con risorse finite.
Con il linguaggio della filosofia della scienza si può affermare che le buone pratiche, la nostra “moltitudine inarrestabile”, sono esperimenti che confutano il modello oggi dominante, la teoria economica neoclassica, secondo cui il sistema dei mercati capitalistici autoregolati sarebbe l’unico in grado di promuovere il benessere individuale (dell’homo oeconomicus) e, per sommatoria, il benessere sociale, garantendo la libertà individuale. Il catalogo delle “buone pratiche” è davvero vasto: gruppi di acquisto solidali, banche del tempo, laboratori di autoproduzione, uso dei free software, microcredito, radio e tv di strada, welfare dal basso e di prossimità, last minute market, mobilità dolce e auto condivise, cohausing, cooperative di auto recupero, gestione condivisa dei beni comuni e molto altro [vedi Faq n. 17]. Insomma, tutto ciò che ricostruisce legami e rapporti sociali e favorisce relazioni non mercificate.
A questo punto dobbiamo porci la domanda: è sufficiente che le buone pratiche si sviluppino spontaneamente e che, a un dato punto di saturazione, determinino un salto di paradigma, rendendo obsoleta la teoria economica dominante? A nostro avviso, no, e per due ragioni che ci derivano dall’esperienza storica. La prima ha a che fare con il tempo. Un sistema economico come quello capitalistico si è costruito nell’arco di secoli, creando poco per volta le proprie istituzioni e le proprie teorie di sostegno: Adam Smith ha “scoperto/giustificato” e non “inventato” l’economia politica classica. Ma le nostre generazioni non hanno altrettanto tempo a disposizione per creare una nuova società basata su una diversa economia e su nuove istituzioni che la sorreggano. La limitatezza delle risorse naturali e il sommarsi delle disuguaglianze sociali fanno pendere la bilancia dalla parte del no [vedi FAQ n.2].
La seconda ragione che la storia suggerisce è la capacità del sistema capitalistico di mutare, di assorbire le spinte al cambiamento, fagocitandole, piegandole ai propri fini. Anche in questo caso vale una metafora medica, quella del virus mutante in grado di aggirare le difese immunitarie, o paradossalmente, quella dello stesso sistema immunitario che sviluppandosi disordinatamente crea la malattia autoimmune, distruggendo il corpo che vorrebbe difendere. Pensiamo, concretamente, alla green economy che, nelle mani delle forze del mercato, può essere più utile a rigenerare più il capitale che non gli ecosistemi naturali.
Per promuovere il cambiamento, tenuto conto dei due vincoli/pericoli sopra evidenziati, possiamo affermare che la via delle buone pratiche è sbagliata? Assolutamente no, ma possiamo affermare che sono la condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere lo scopo.
Occorre allora avere un qualche progetto che ci permetta di raggiungere l’obiettivo nel poco tempo ancora a nostra disposizione. Anche in questo caso possiamo ricavare buone indicazioni dalla storia: un progetto calato dall’alto va incontro al fallimento, perché imposto da una minoranza che per realizzarlo deve ricorrere alla violenza, così che la cura diventa peggiore del male.
Nel suo libro Hawken fa una giusta osservazione: la caratteristica della sua “moltitudine” è quella di avere una scarsa capacità di coesione, di condividere obiettivi a lungo termine. Perché? Perché i soggetti che la compongono sono tanti e si trovano a livelli e tempi di maturazione differenti, e perché muovono da motivazioni diverse.
Allora la transizione può essere vista come un obiettivo a medio termine, dove le buone pratiche imparano a fare fra loro rete, a interagire costruendo economia solidale “pezzo a pezzo”, sperimentando e condividendo obiettivi, valori e nuove istituzioni per una nuova economia. Fra le varie proposte che si stanno evidenziando, di particolare interesse è quella che punta alla costituzione di distretti di economia solidale, ovvero realtà territoriali delimitate dove le buone pratiche si organizzano in comunità capaci di rendersi autonome, almeno per la soddisfazione dei bisogni di sussistenza (mangiare, riscaldarsi, relazionarsi). Il “Km Zero”, le filiere corte, le “8 R” di Latouche, sono tutti pezzi di un mosaico che possono trovare nella cornice del distretto una loro coerenza progettuale, in grado di innescare un processo di transizione che vada a buon fine.
Letture essenziali
Takis Fotopoulos, Per una democrazia globale, elèuthera, Milano, 1999.
André Gorz, L’uscita dal capitalismo è già cominciata, in: Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile. Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto, Edizioni Ambiente, Milano, 2009.
Rob Hopkins, Manuale pratico della transizione, Arianna Editrice, Bologna, 2009.
Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2006.
http://www.retecosol.org/
17. Che ruolo ha l’economia alternativa e solidale?
Decrescita ed economia solidale sono complementari. Sono la teoria e la pratica di un movimento unico, ideale e concreto.
Da circa vent’anni si stanno moltiplicando, specie nei paesi occidentali, attività che, pur con linguaggi diversi, fanno riferimento alla sperimentazione di un’economia con caratteristiche ben diverse da quella oggi dominante a livello planetario. Sta cioè emergendo diffusamente il tentativo di verificare le potenzialità di modelli produttivi e di consumo che non abbiano come conseguenze l’immissione sul mercato di un numero insostenibile di oggetti e soprattutto la dissipazione di materie prime essenziali e mutazioni drammatiche del clima terrestre.
Prima di comprendere esattamente quali siano i rapporti esistenti tra questo tipo di economie e il pensiero della decrescita, è necessario tenere conto della continua rielaborazione e della diversità delle finalità perseguite, dei contenuti prioritari, delle modalità di rapportarsi al sistema economico dominante e anche delle relazioni intrattenute all’interno e all’esterno delle singolo esperienze. Siamo quindi in presenza di una frammentazione e articolazione che in questa fase storica è anche creatività e capacità di mutazioni continue.
In primo luogo, sono comprese nella definizione di economia solidale tutte le attività economiche che non perseguono le stesse finalità del sistema economico capitalistico di ispirazione liberista o neoliberista oggi predominante. In particolare, l’economia solidale rifiuta gli obiettivi di crescita, di sviluppo e di espansione illimitati, il perseguimento del profitto a ogni costo, lo sfruttamento delle persone nei meccanismi economici, il mancato rispetto dei diritti umani, di tutti i viventi, e della natura. Le attività di altra economia perseguono invece il soddisfacimento delle necessità fondamentali e il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone, sono dirette all’affermazione di principi di solidarietà e di giustizia, hanno come finalità primaria la valorizzazione delle capacità di tutti coloro che fanno parte delle diverse società. Sono comprese in questa definizione anche le attività che prevedono la parziale o graduale uscita dal sistema economico capitalistico e le sperimentazioni di stili e modelli completamente nuovi di vita sociale, di redistribuzione delle risorse, di produzione e scambio, di uso corretto di oggetti non dannosi per le persone e la natura.
In secondo luogo, le attività dell’economia alternativa e solidale considerano in modo paritetico le iniziative avviate in tutto il mondo, ma attribuiscono particolare attenzione a quanto viene realizzato “nei Sud”, in modo da contribuire a compensare il più rapidamente possibile gli squilibri oggi esistenti. Inoltre, questi embrioni di altra economia considerano l’eco-compatibilità una condizione essenziale per il loro operare: devono essere previste attività destinate a recuperare e a ricostituire le ricchezze della Terra, già fortemente intaccate nelle loro capacità di riproduzione, mentre la salvaguardia dei meccanismi biologici e l’uso di risorse, specie energetiche, riproducibili, è considerato un obiettivo assolutamente prioritario. Centrali sono quindi le ricerche e la progettazione di prodotti che sempre meno incidano sull’uso delle ricchezze naturali essenziali, che promuovano l’utilizzo di risorse energetiche rinnovabili e che non danneggino gli animali. Tra le priorità va anche inclusa la riprogettazione di tutti i prodotti ad alto impatto ambientale, a partire dai cosiddetti prodotti “usa e getta”.
Le “imprese” dell’altra economia, costituite in forme già note o di nuova concezione, si pongono in un atteggiamento cooperativo e solidale tra loro, sono orientate alla creazione di lavoro qualificato ed equamente retribuito, perseguono il miglioramento della qualità dei prodotti secondo criteri di eco-compatibilità. Tutto il maggior valore creato viene normalmente reinvestito nelle attività di economia alternativa per favorirne la diffusione. Anche il ruolo dell’individuo come consumatore è pensato in forma molto diversa da quella attuale: la sobrietà nei consumi è infatti la precondizione necessaria per una redistribuzione più equa delle risorse, che consenta a tutti di consumare in modo attivo, consapevole e responsabile, al fine di favorire e accelerare la transizione all’economia alternativa, anche privilegiando la categoria dell’utilizzo rispetto a quella della proprietà. Le scelte di acquisto e di uso dei prodotti e dei servizi devono essere basate su una conoscenza approfondita delle caratteristiche qualitative e dei costi reali, degli eventuali danni alla salute personale e familiare, all’ambiente, agli animali e alle popolazioni.
I consumatori devono essere messi in grado di valutare i comportamenti delle aziende produttrici per quanto riguarda il rispetto dell’ambiente, dei diritti umani, civili, sociali e sindacali delle persone, delle comunità e dei diritti animali. I consumatori che aderiscono all’economia solidale devono considerarsi responsabili delle loro scelte e di quanto viene deciso in tale ambito.
Le relazioni tra persone all’interno dell’economia alternativa devono essere improntate a principi di reciprocità, pariteticità, cooperazione e solidarietà, in modo da mutare in profondità le logiche economiche, facendo sempre prevalere i rapporti tra persone sulle logiche di produzione, di scambio e di uso delle risorse. Le attività economiche rispondenti a modelli alternativi devono rispettare norme di trasparenza, assicurare la massima inclusione e partecipazione, garantire ai livelli più alti la responsabilizzazione delle persone impegnate nella produzione e nello scambio. Le regole d’ispirazione democratica devono essere considerate il livello minimo necessario da rispettare, mentre devono essere perseguite e applicate norme che garantiscano il massimo consenso e la massima partecipazione dei soggetti coinvolti. Naturalmente tutto ciò non può essere ottenuto immediatamente, dati i vincoli e le vischiosità del sistema in cui sono immerse le attività alternative, però lo sforzo di attuazione dei principi enunciati deve essere continuo e senza tentennamenti.
I comparti nei quali si articolano le attività dell’economia solidale sono oltre sessanta (non tutti sufficientemente presenti in Italia) e aumentano continuamente di numero, man mano che la creatività riesce a rispondere ai bisogni emergenti.
Letture consigliate
AA.VV. Il capitale delle relazioni, come creare e organizzare gruppi di acquisto e altre reti in 50 storie esemplari, Altreconomia Edizioni, Milano, 2010.
Davide Biolghini, Il popolo dell’economia solidale, EMI, Bologna, 2007.
Roberta Carlini, L’economia del noi. L’Italia che condivide. Laterza,Roma-Bari, 2011.
M. Di Sisto, Un commercio più equo, Altreconomia Edizioni, Milano, 2011.
G. Mameli, La Sardegna delle eccezioni, CUEC, “Prospettive e società”, Cagliari, maggio 2011.
Luca Martinelli, Salviamo il paesaggio, manuale per difendere il territorio da cemento e altri abusi, Altreconomia edizioni, Milano, 2012.
S. Montanari (a cura), Rifiuto, riduco e riciclo, guida alle buone pratiche, Arianna Editrice, Bologna, 2009.
18. C’è una relazione tra decrescita e beni comuni?
La preservazione e l’uso condiviso dei beni e dei servizi essenziali alla vita sul pianeta sono lo scopo stesso della decrescita.
I beni comuni sono l’altra faccia della medaglia della decrescita. Se decrescita a qualcuno può sembrare solo la parte decostruens del discorso per via della particella privativa “de”, nella nuova visione decrescente i beni comuni costituiscono la parte construens della società. La decrescita, infatti, mira a liberare spazi e tempi di vita dal tritacarne della megamacchina termo-industriale per lasciare fiorire un’altra idea di società, meno in disarmonia con i cicli naturali e meno squilibrata a danno dei più deboli. Più riusciremo a ridurre la sfera delle attività mercificate – dove vige la dittatura dell’accumulo senza fine, del profitto e del PIL –, più potremo allargare la sfera delle attività libere, volontarie, creative, utili per se stessi e per gli altri. Se decrescita significa rifiutare la logica dell’uso predatorio delle risorse naturali e dei meccanismi giuridico-istituzionali che distruggono le stesse relazioni umane, il prendersi cura dei beni comuni significa allora rovesciare il modo di pensare al mondo e a noi stessi, dando un senso profondo e un obiettivo etico al fare umano: il minor impatto possibile sul pianeta e sui suoi abitanti.
La nozione di bene comune è diventata molto popolare e potente, capace di produrre azioni collettive. Sempre più sovente e sempre più numerosi sono i gruppi sociali, i comitati di utenti di servizi collettivi, i gruppi della cittadinanza attiva, gli abitanti dei territori, i contadini nativi, i mediattivisti, i lavoratori di una fabbrica o di una categoria, che usano la locuzione “bene comune” per qualificare l’oggetto della loro rivendicazione. I servizi idrici, la scuola e la cultura, Internet, le foreste, i fiumi, i beni demaniali, i semi, le infrastrutture, il lavoro e molto altro ancora vengono riconosciuti come beni indispensabili per il buon vivere assieme e per rendere effettivi i diritti fondamentali degli individui. I beni comuni sono le cose che condividiamo e di cui non possiamo fare a meno. Beni che, per essere di tutti, non possono appartenere in esclusiva ad alcuno. Per questa ragione devono essere sottratti alla gestione privatistica e affidati a forme di gestione pubblica partecipata.
Prima di essere delle cose, i beni comuni sono un processo di riconoscimento sociale, non sono una categoria merceologica da scegliere a catalogo e nemmeno delle poste che si trovano sui capitoli del bilancio dello stato. Sono risorse speciali, beni primari, basilari, originari, nel senso che sono precondizione per poter svolgere qualsiasi attività. Sono ricchezze naturali e lasciti sedimentati dal lavoro creativo svolto dalle generazioni precedenti alle nostre: materie prime e saperi, codici, lingue, norme, sistemi di risorse connettive e sistemi di valori relazionali; spazi sociali e naturali che forniscono sostentamento, sicurezza, indipendenza e che sono attraversati da rapporti umani improntati alla cooperazione, alla fiducia, alla reciprocità. Sono “beni della vita”.
Se la proposta politica della decrescita allude a una società di comunità aperte, tra loro solidali nella pratica della sussidiarietà, fortemente legate ai territori, che disegnano una rete di democrazie locali basate sulle bioregioni – cioè comunità ecologiche dove le piante, gli animali, le acque e gli uomini formano un insieme relativamente coerente – allora i beni comuni costituiscono la sostanza delle relazioni sociali tra gli individui.
L’espressione sintetica commons (beni comuni), spesso riferita al solo contesto umano, in realtà è una formula che custodisce potenzialità di straordinaria portata, L’espressione si è prestata e si presta infatti ad un’estensione di significato che travalica di gran lunga – senza negarli – i confini e i diritti degli umani. In virtù di questo sconfinamento, il bene comune finisce per riguardare la Terra nel suo insieme, come organismo vivente (Gea, o Gaia, per gli antichi), perdendo le possibili connotazioni antropocentriche. Un tratto questo, che sembra essenziale e comune a molte cosmologie antiche, presenti nel Mediterraneo ma anche oltre oceano, prima che si affermasse l’occidentalizzazione del mondo. Rivitalizzare questa concezione non può che contribuire ad ampliare e radicalizzare di molto la prospettiva di quanti oggi fanno leva sui beni comuni per cercare di arginare la tendenza alla privatizzazione e alla mercificazione della Terra e dei suoi abitanti”.
Infine i beni comuni aprono al tema dell’empowerment, della “capacitazione”, del coinvolgimento cosciente e responsabile delle persone e della formazione di una cittadinanza attiva, che dal basso agisce attraverso innumerevoli pratiche di autogoverno partecipato, di mutualità, di auto aiuto, di volontaria collaborazione. Qui si apre uno sconfinato campo di elaborazione e di sperimentazione politica nella ricerca di modelli di governo pubblico partecipato (non necessariamente statale) e di processi decisionali per la gestione pratica dei beni comuni, immediatamente praticabili, declinando la nozione di bene comune come una nuova categoria del politico e del giuridico.
Letture essenziali
Paolo Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, Ediesse, Roma, 2010.
P. Cacciari, N. Carestiato, D. Passeri (a cura di), Viaggio nell’Italia dei beni comuni, Marotta & Cafiero, 2012.
Ugo Mattei, Beni comuni, un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011.
Alberto Lucarelli, Beni Comuni. Dalla teoria all’azione politica, Dissensi, Viareggio, 2011.
Raj Patel, Il valore delle cose, Feltrinelli, Milano, 2010.
Vandana Shiva, Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano, 2006.
19. Che importanza deve essere riconosciuta alle diverse culture?
Ogni cultura sceglie liberamente la propria strada di liberazione dal paradigma occidentale della crescita.
La decrescita è una proposta fondamentalmente rivolta alle società più sviluppate e industrializzate, che non avrebbe senso in contesti che non hanno alle spalle decenni di politiche di sviluppo e nei quali la società tradizionale non è stata ancora stravolta dalla logica del consumismo, tuttavia essa condivide le critiche ai modelli della crescita visti come forme di occidentalizzazione e di neocolonialismo.
In effetti l’idea di sviluppo appartiene prioritariamente al mondo occidentale e costituisce un’invenzione tutto sommato recente. Che non sia un concetto universalmente condiviso emerge per esempio dal fatto che in molte lingue non occidentali non esiste nemmeno una parola corrispondente: nulla di strano, visto che in molte culture non occidentali non è presente un principio di accumulazione capitalistica. L’espressione “sviluppo economico” nel senso corrente è entrato nell’uso comune solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, e la sua introduzione è stata immediatamente accompagnata da quella della categoria di “sottosviluppo”.
Come è stato notato da diversi autori – da Gilbert Rist a Wolfgang Sachs – questa concezione unilineare che impregna la mentalità occidentale ha comportato il disconoscimento delle diversità culturali e di complesse visioni del mondo, irriducibili a schemi sviluppisti ed espressioni di forme alternative di civiltà, che sono state ignorate oppure ricollocate nella fase iniziale e primitiva di una presunta unica storia universale orientata nella direzione del progresso e del moderno sviluppo capitalistico occidentale. Le altre culture e le altre forme di organizzazione sociale ed economica non vengono quindi considerate nella loro diversità, ricchezza e compiutezza, ma sono ricondotte a posizioni arretrate, sottosviluppate, ritardatarie all’interno di una scala temporale evolutiva tracciata dalla modernità occidentale che si autorappresenta come l’apice della storia. In questa prospettiva gli altri popoli e le loro culture figurano come bisognosi di aiuto per definizione, e diventa perciò necessario sostenerli con gli aiuti umanitari e l’imposizione di politiche di sviluppo.
D’altra parte diversi studiosi hanno mostrato che, in molti paesi del sud del mondo, le politiche di sviluppo si sono accompagnate a un processo di interiorizzazione del giudizio dell’altro. Dietro l’adesione alla “religione” dello sviluppo si cela dunque l’interiorizzazione da parte del colonizzato dello sguardo del colonizzatore, l’assunzione delle sue idee di bene e di male, di utile e di inutile, di ricchezza e di povertà. Tuttavia il fallimento delle promesse dello sviluppo e dei modelli fondati sulla crescita –che hanno dato vita ad una società fortemente polarizzata con una minoranza ricca ed occidentalizzata ed una maggioranza povera – ha generato negli ultimi decenni una controreazione con forti e diffusi movimenti di critica del paradigma sviluppista. Tanto più che il modello dell’economia consumista di rapina solleva sempre maggiori resistenze tra le comunità locali che si oppongono a uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali locali.
Oggi molte comunità ritrovano il senso della propria differenza e della propria identità e rivendicano un bagaglio di valori, di saperi e di pratiche fortemente caratterizzato in senso ecologico, comunitario ed egualitario. Alle parole d’ordine “occidentali” oppongono saperi e concezioni tradizionali, riattualizzati e ripensati alla luce dei conflitti contemporanei: di qui per esempio la difesa della “Pacha Mama” contro le devastazioni dei modelli estrattivisti, o la riproposizione di varie categorie culturali andine che privilegiano la ricerca di una vita vissuta in tutta la sua pienezza, eccellenza e bellezza, contro il modello della crescita quantitativa e dell’ossessione consumista; la riscoperta delle concezioni indiane di “Swadeshi” o di “Navdanja”, che richiamano temi quali la rilocalizzazione, l’autosufficienza, la tutela della biodiversità e della rigenerazione; il principio “Ubuntu” di origine bantu e diventato centrale nel nuovo Sud Africa, che richiama l’idea del riconoscimento delle relazioni reciproche che legano ogni persona a tutte le altre, nonché la compassione e la lealtà verso la comunità. In generale a una concezione di ricchezza tutta materiale ed economica, viene quindi preferita un’idea di ricchezza ecologica e sociale, al successo e all’arricchimento individuale viene anteposto il benessere comunitario.
Dunque le concezioni economiche e politiche occidentali non sono più prese come modelli indiscussi ma sono sempre più spesso assunte a bersagli polemici e indicate come responsabili di una crisi che non è solo economica e finanziaria ma di civiltà. La crisi dell’immaginario colonialista dello sviluppo e della crescita da questo punto di vista apre finalmente la possibilità di un confronto autentico tra culture e tradizioni, nel segno della “democrazia delle culture” auspicata da Latouche, o nel segno del dialogo interculturale così come teorizzato e praticato da Raimon Panikkar.
La filosofia della decrescita dunque non si propone come nuovo modello universale da esportare in tutto il mondo, ma, al contrario, come riconoscimento della ricchezza e della resilienza garantita dalla diversità culturale e sociale e come assunzione riflessiva della parzialità e dei limiti dell’esperienza occidentale in uno spirito di rinnovamento e di rigenerazione. Nonostante le pretese del “pensiero unico”, la diversità culturale non solo non è scomparsa ma continua a riprodursi dentro e fuori il mondo occidentale.
Letture essenziali
Johannes Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2000.
Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
Raimon Panikkar, Pace e interculturalità, Jaca Book, Milano, 2002.
Majid Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Mondadori, Milano, 2005.
Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Ega, Torino, 1998.
Marshall Sahlins, 1992, Storie d’altri, Guida Editori, Napoli.
Vandana Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino, 1990.
Vandana Shiva, Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica”, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, Cuen, Napoli, 1999.
Aminata Traoré, L’immaginario violato, Ponte alle grazie, Milano, 2002, pp. 144-145.
20. La decrescita si pone in una prospettiva di genere?
Non ancora, benché non manchino convergenze con le analisi e le pratiche del femminismo.
Un rapido sguardo alla condizione femminile, così come emerge dai recenti rapporti internazionali, ci presenta un quadro drammatico. Le donne nel mondo rappresentano la maggioranza dei poveri e degli analfabeti; per il loro lavoro non ricevono reddito in misura proporzionale, e nonostante la loro preziosa attività per la sussistenza, e nella gestione e conservazione delle ricchezze naturali, dei beni comuni e della biodiversità, non hanno voce nelle loro comunità e il loro accesso alla terra e al credito è molto limitato. Povertà e discriminazione espongono le donne al rischio di maltrattamenti e dell’ingresso nella tratta internazionale a scopo di prostituzione.
Una tale condizione di violenza e oppressione è spesso sottaciuta e sottovalutata e, soprattutto, è assente dall’analisi economica, considerata estranea al meccanismo produttivo e sulla quale pertanto si può sorvolare. Eppure, comprendere le origini e le cause dell’asimmetria nella divisione sessuale del lavoro è imprescindibile per chiunque si ponga in una prospettiva di mutamento. Negli ultimi decenni la riflessione femminista sui temi economici e ambientali, avvalendosi dei numerosissimi studi sull’origine del patriarcato compiuti fin dall’Ottocento, ha indagato in profondità il nesso tra patriarcato e sviluppo capitalistico, tra dominio delle donne e sfruttamento della natura, tra sfruttamento delle donne e il paradigma dell’illimitata accumulazione e crescita.
Da questi studi è emerso che il maggiore ostacolo al processo di umanizzazione delle donne è stato ed è il modo di concepire il lavoro e la produttività che si è affermato con il patriarcato e che è stato portato alle conseguenze estreme dallo sviluppo capitalistico. Nelle società matrifocali la femminilità era il paradigma sociale di tutte le forme di produttività, il principio attivo fondamentale nella produzione della vita. Nella società patriarcale e capitalistica, invece, essa è stata svuotata di tutte le qualità attive, produttive e creative; è equiparata alla passività, a un “fatto di natura”. A essere veramente umane sono considerate le qualità maschili, che risiedono nella forza fisica e nel pensiero. Il lavoro delle donne, di generare e crescere i figli non è considerata una attività umana e sociale consapevole e che richiede abilità e saperi appresi attraverso il lavoro e la riflessione. In questo processo di apprendimento, le donne hanno acquisito una conoscenza profonda delle forze generative della natura, delle piante, degli animali, della terra; sono state le prime responsabili della produzione della sussistenza, le prime inventrici dell’agricoltura, hanno sviluppato le prime relazioni produttive con la natura, relazioni di cooperazione e non di dominio. Al contrario, la produttività maschile, legata all’allevamento che prese il sopravvento sulle comunità fondate sull’agricoltura, implicava l’applicazione di sistemi di violenza e coercizione nei confronti degli animali, ha condotto alla guerra per l’estensione dei territori e la riduzione in schiavitù di altri uomini e soprattutto delle donne per avvalersi del loro lavoro e della loro fertilità.
Il pieno sviluppo del modo predatorio di produzione si realizza nel feudalesimo e, soprattutto, nel capitalismo. Con l’industrializzazione il processo di proletarizzazione degli uomini andò di pari passo con quello del controllo delle capacità riproduttive delle donne e del dominio sulla natura: le donne furono relegate nella sfera domestica, espulse dalle attività lavorative, si andò affermando il mito “dell’uomo che mantiene la famiglia” e un’idea angusta di lavoro, associata unicamente al lavoro salariato, quello che produce plusvalore, non quello volto alla soddisfazione dei bisogni umani fondamentali (vedi FAQ 7). Da allora l’economia si è sempre configurata come un sistema ben delimitato dai cui confini sono stati esclusi o resi marginali molti aspetti dell’esistenza umana e della natura non umana, in particolare quel lavoro di riproduzione e conservazione della vita che rende possibile ogni altra attività e che è prerogativa delle donne; la stessa economia di mercato rappresenta dunque un mondo pubblico definito dagli uomini, modellato sulla loro esperienza, slegato dai bisogni fondamentali della vita.
Nella consapevolezza che patriarcato e accumulazione capitalistica su scala mondiale sono l’ambito ideologico e strutturale in cui la realtà delle donne va oggi compresa, la prospettiva femminista per una nuova società ha individuato una via di liberazione nella semplicità volontaria, nella riduzione dei consumi che causano povertà e distruzione dell’ambiente e accrescono le forme più brutali di dominio sulle donne. Non una rinuncia, ma un percorso di liberazione che implica l’affermazione di valori negati dall’economia di mercato: l’autosufficienza, la cooperazione, il rispetto di tutti i viventi, la creatività, la gioia del lavoro, un’economia morale basata su principi etici che superi l’attuale divisione sessuale del lavoro.
Fin dagli anni Novanta alcuni degli autori che hanno posto al centro della propria riflessione la critica alla crescita economica hanno riconosciuto il contributo del pensiero economico femminista e in particolare dell’ecofemminismo, altri hanno messo in rilievo l’assenza del lavoro domestico dal PIL, ma nel complesso non si può dire che il punto di vista di genere si sia affermato nel pensiero della decrescita; al contrario, dalle sue analisi esso è quasi sempre assente, o considerato “tacitamente incluso” in un discorso più ampio, raramente esplicitato, mai articolato.
E tuttavia le convergenze sono molteplici, in particolare quelle che riguardano la critica al consumo e le pratiche di liberazione dei consumatori. Una prospettiva di genere consentirebbe al pensiero e al movimento della decrescita di cogliere l’intreccio dei rapporti di dominio e di includere nel suo progetto il superamento della divisione sessuale del lavoro e nelle sue pratiche l’astensione da tutti quei consumi che contribuiscono allo sfruttamento delle donne nel mondo, che mantengono e promuovono immagini sessiste e soprattutto un’azione decisa contro la disumanizzazione delle donne e la schiavitù sessuale.
Letture essenziali
Ester Boserup, Il lavoro delle donne. La divisione sessuale del lavoro nello sviluppo economico, Rosenberg & Sellier, Torino, 1982.
Maria Rosa Dalla Costa-Giovanna Dalla Costa (a cura di), Donne, sviluppo e lavoro di riproduzione, Angeli, Milano, 1996.
Mary Mellor, Ecofemminismo e eco-socialismo. Dilemmi di essenzialismo e materialismo, in “Capitalismo, natura e socialismo. Rivista di ecologia socialista”, anno III, n. 1, 1993, pp. 10-29.
Merchant Carolyn, La morte della natura: le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica, Rizzoli, Milano, 1988.
Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale, Zed Books, London, 1986.
Roy Arundhati, La fine delle illusioni, Guanda, Milano, 1999.
Shiva Vandana, Sopravvivere allo sviluppo, trad. it. di Marinella Correggia, Isedi, Torino, 1990.
I testi più recenti sono di dodici anni fa (2012) forse sarebbe bene un aggiornamento.
Grazie comunque del lavoro molto utile.
Andrea Guadagni
3384360805