E’ appena stato pubblicato il report “Andare oltre la crescita economica: il ruolo dell’Europa nella costruzione di un’economia giusta per il bene comune” (Caritas Europa, novembre 2024).
Più che sui contenuti, riteniamo importante segnalare che anche la Caritas mette esplicitamente in dubbio il modello e il mito della crescita, additata come “ una delle cause principali dei principali problemi e ingiustizie contro cui Caritas Europa si batte”. Il report non parla esplicitamente di decrescita ma segnala un’importante apertura (almeno) verso la post-crescita.
“L’attuale sistema economico predominante, incentrato sulla crescita economica come obiettivo principale e sul PIL come principale misura del progresso, è una delle cause principali dei principali problemi e ingiustizie contro cui Caritas Europa si batte. Questa pubblicazione presenta la nostra visione di un’economia giusta, un’economia che migliora il benessere sociale, ecologico, politico, economico, culturale e spirituale di tutte le persone, basata su valori di solidarietà, semplicità e sufficienza.” (dall’Executive Summary).
E ancora: «La crescita non è l’antidoto alla povertà e alle disuguaglianze …. Abbiamo bisogno di politiche per ridurre il nostro consumo di energia e risorse in Europa, per rispettare i nostri impegni climatici globali, per garantire una giusta transizione energetica, per investire nella protezione sociale e nel lavoro dignitoso, per finanziare lo sviluppo umano, per garantire la responsabilità aziendale e per riformare le istituzioni finanziarie internazionali ” ha detto ha spiegato Lucy Ann, co-autrice del report, in questa intervista a Avvenire.
Lasciando a chi ha più tempo e dimestichezza con l’inglese la lettura dell’intero report in inglese, proponiamo qui la traduzione (curata da Carlotta Paglia, del Gruppo Internazionale) dell’’introduzione di Olivier De Schutter, Relatore Speciale sulla povertà estrema e i diritti umani delle Nazioni Unite.
Questo rapporto di Caritas Europa sulla necessità di costruire un’economia giusta non potrebbe arrivare in un momento più adatto. Mentre la nuova Commissione Europea si sta preparando ad adottare la prima strategia europea contro la povertà, ci sono molte voci, tra cui quella dei sindacati e della società civile, che esprimono dubbi sulla possibilità di conciliare la lotta alla povertà con il bilancio dell’UE. È infatti probabile che una nuova ondata di politiche di austerità segua il ripristino del Patto di Stabilità e Crescita, in un contesto in cui la pandemia di Covid-19 e la crisi del costo della vita che ha seguito l’invasione russa dell’Ucraina ha portato il debito pubblico degli stati membri a livelli che non hanno precedenti. L’unica via d’uscita, secondo la visione dominante, è quella di stimolare la crescita: se il PIL non aumenta rapidamente, sarà impossibile conciliare il servizio del debito e l’equilibrio fiscale con gli investimenti sociali necessari per combattere la povertà.
I riferimenti ai rapporti Letta e Draghi (rispettivamente sul mercato interno e sulla competitività dell’UE) contenuti nelle “lettere di missione” che la Presidente von der Leyen ha inviato ai membri della Commissione ne sono un’ulteriore conferma: anche questa volta l’UE cercherà di superare le sfide che deve affrontare facendo crescere l’economia. Questo rientra nella saggezza convenzionale su come combattere la povertà, che tradizionalmente è stata pensata come una sequenza in tre fasi: attraverso la crescita economica aumentiamo la disponibilità di ricchezza; attraverso la tassazione imposta alle imprese e alle famiglie ricche, lo Stato finanzia i propri bilanci; attraverso i servizi pubblici e la protezione sociale quest’ultimo assicura la propria funzione redistributiva.
Caritas Europa mette in discussione questa narrazione dominante. La funzione redistributiva dello stato sociale rimane essenziale, ovviamente. Ma riporre tutte le nostre speranze nel raggiungimento di un aumento del PIL come precondizione per tutto il resto, tradisce un preoccupante fallimento dell’immaginazione politica. E provoca conseguenze perverse. In primo luogo, crea una dicotomia tra la necessità di affrontare le crisi ambientali (mitigando il cambiamento climatico, limitando l’estrazione di risorse e riducendo la perdita di biodiversità) e la lotta alla povertà. I Paesi europei possono riuscire, per periodi di tempo limitati, ad aumentare il PIL e allo stesso tempo ridurre le emissioni di gas serra, ma non sono mai riusciti a farlo preservando la biodiversità e limitando l’uso delle risorse per lunghi periodi di tempo. I miti del “disaccoppiamento assoluto” e della “crescita verde” sono ancora in voga, con profonde ripercussioni sul Sud del mondo, dove si estrae la maggior parte delle risorse per “rendere verde” la nostra economia.
In secondo luogo, come si osserva anche nel rapporto, la ricerca della crescita del PIL distorce il rapporto tra i governi e le imprese più grandi, i campioni delle economie di scala e delle catene di fornitura globali. Se la capacità dei governi di proteggere i cittadini dipende dalla tassazione dell’attività economica, saranno facilmente manipolati da imprese che possono convertire il loro dominio economico in influenza politica. Queste grandi aziende, infatti, possono garantire una produzione di massa per un consumo di massa: possono quindi facilmente scoraggiare i governi dall’imporre oneri troppo gravosi alle imprese, per evitare che perdano competitività o, peggio ancora, siano costrette a uscire dal mercato e cessare l’attività. Le grandi aziende non sono solo difficili da regolamentare in maniera efficace: spesso sono anche troppo grandi per fallire.
In terzo luogo, la ricerca della crescita porta a una serie di scelte politiche – dalla flessibilizzazione del lavoro alla liberalizzazione del commercio e alla creazione di un clima di investimento “favorevole alle imprese” (una parola d’ordine per la deregolamentazione) all’attivazione di politiche sociali che possono, di fatto, creare la stessa esclusione che la crescita avrebbe dovuto prevenire. Potremmo aver raggiunto un punto nello sviluppo dei Paesi europei in cui la crescita è diventata controproducente o, come ha detto Herman Daly, “antieconomica”: i suoi impatti negativi potrebbero superare i suoi benefici.
Questo rapporto non si limita a mettere in discussione la narrazione dominante. Indica anche delle soluzioni. Se vogliamo uscire dall’attuale percorso di dipendenza, è essenziale ridurre le disuguaglianze. L’esclusione sociale, ovviamente, si riflette innanzitutto in una grave deprivazione materiale derivante dalla mancanza di un reddito di base: in Europa, 23,9 milioni di persone sono in condizioni di estrema povertà. Ma è anche il risultato del divario di reddito tra i più ricchi e i più poveri, che possono sentirsi esclusi anche quando i loro bisogni primari sono soddisfatti. Infatti le aspettative sociali cambiano con l’aumento dello standard di vita medio: non poter andare in gita scolastica o iscriversi a un’attività extrascolastica, non poter comprare l’attrezzatura sportiva necessaria, o non poter partecipare alla vita sociale perché ci si vergogna di essere vestiti male, sono parte dell’esperienza di essere poveri. La lotta contro l’obsolescenza programmata e contro il bombardamento pubblicitario fanno anch’esse parte della lotta alla povertà. Perché il sentimento di esclusione deriva anche dall’imperativo a consumare e a rinnovare costantemente gli oggetti della vita quotidiana, facendoci sentire emarginati non appena non siamo più in grado di sostenere il confronto sociale.
Più in generale, portare avanti una lotta contro la povertà che non si basi sull’illusione di una crescita economica infinita significa anche indirizzare l’uso delle limitate risorse che abbiamo verso il soddisfacimento dei bisogni essenziali, invece di soddisfare le fantasie e i desideri frivoli dei più abbienti. Non è normale che continuiamo a produrre auto super potenti e jet privati o a costruire ville di lusso, mentre le famiglie non possono spostarsi o trovare un alloggio decente, a causa di investimenti insufficienti nei trasporti pubblici o nell’edilizia popolare. Tuttavia, finché il grosso della macchina economica è nelle mani di aziende guidate principalmente dalla ricerca del profitto, il sistema risponderà alla domanda espressa dalle famiglie con il più alto potere d’acquisto, piuttosto che ai bisogni essenziali dei cittadini. Ecco perché l’economia sociale e solidale ha un ruolo essenziale da svolgere nel mondo di domani.
Accolgo con favore questa relazione come un importante contributo al dibattito sul modello di Europa che vogliamo. Lo scenario di post-crescita che esplora non significa imporre l’austerità; né va confuso con la recessione, anche se le recessioni sono caratterizzate da tassi di crescita negativi. Piuttosto, orientare l’economia verso un futuro di post-crescita significa pianificare democraticamente una transizione verso un’economia che riduca la sua dipendenza dalla crescita, in modo da contribuire alla realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali e alla riduzione delle disuguaglianze. Mettiamoci quindi in ascolto.