Condividiamo il testo che Alice Dal Gobbo ha scritto per la conferenza Beyond growth (Roma, 19-20 aprile) e pubblicato anche su comune-info. Ci sembra un contributo importante, anche in vista del Seminario su decrescita e questioni di genere che si terrà il 26 maggio a Bologna. 

Parlare di decolonialità e intersezionalità nell’ambito della decrescita è un’operazione per molti versi scomoda, eppure estremamente proficua e, direi, necessaria. La prospettiva decoloniale, ma anche quella femminista, che sono prospettive dei margini, sono quelle che maggiormente interrogano in modo critico la decrescita. Innanzitutto, si tratta di pensieri e pratiche di sperimentazione con radici molto diverse: la decrescita con un radicamento nel nord globale, ricco e bianco, ma anche spesso maschile per lo meno nelle sue canonizzazioni più “classiche”; la decolonialità/intersezionalità legate invece al sud globale (specialmente all’America Latina), meticcio e razzializzato, alle donne e ai movimenti trans-femministi. Nel tempo, l’orizzonte della decrescita si è dovuto espandere proprio per effetto delle pressioni pratiche e intellettuali che queste marginalità ponevano al suo orizzonte1. Che cosa significa decrescere quando si è state deprivate della gran parte dei mezzi per supportare una buona vita e non si è state incluse nell’orizzonte di quella “crescita” che promette di farlo? Chi sono i soggetti che maggiormente assumono su di sé il lavoro che le pratiche socio-ecologiche decrescenti richiedono? Come pensare la decrescita in termini di cura? Si tratta di domande che emergono da questo incontro-scontro.

Parlare di decolonialità e intersezionalità permette allora di ragionare su come la decrescita si collega a lotte e concetti che non sempre vengono riconosciuti nella sua genealogia o sufficientemente esplorati nei termini nel loro potenziale trasformativo, soprattutto a livello di pratiche: ciò che maggiormente ci tocca decostruire a livello soggettivo e di movimento. Ma pone anche la necessità di confrontarsi con i margini della modernità capitalista, se la decrescita vuole essere un processo e un ideale giusto, ma anche sufficientemente radicale per essere all’altezza delle enormi sfide socio-ecologiche del presente. Lo sforzo, per quanto situato e parziale, è allora di stare dentro questo margine, pensare di e nel margine, cercando di evidenziare come non vi sia ecologia giusta senza la decostruzione delle narrazioni padronali2 che strutturano il presente – in particolare, ma non solo, quelle che si articolano attorno a genere, razza, specie.

Parto dal tema dell’intersezionalità. È un concetto che ha una storia relativamente lunga e complessa. Il termine nasce in ambito giuridico, dalla giurista nera Kimberlé Crenshaw3, per definire come diverse forme di oppressione si incrociano e si sommano le une alle altre, implicando forme di violenza diversamente stratificate per diversi soggetti (per esempio, essere donna nera non è la stessa cosa che essere donna bianca: poiché nel primo caso due assi di oppressione si sommano e provocano effetti di potere peculiari). Oggi mi pare che “intersezionalità” indichi una forma di analisi e di azione (eco-)sociale ben più ampia, nel senso che oltre a individuare diverse forme di oppressione tende anche a rintracciarne le cause sistemiche, identificando la loro inter-relazione, il loro co-emergere, e il fatto che partecipino tutte insieme alla riproduzione di un dato sistema di potere, che potremmo chiamare modernità capitalista. Ma questa prospettiva stessa ci mette in guardia rispetto alla necessità di fare attenzione quando ci si riferisce al “capitalismo”: si tratta infatti di un insieme di relazioni che non possiamo più pensare definito da un asse di dominio privilegiato, ossia quello della classe. Piuttosto, esso ri-articola e fonda differenti assi di dominio come quello patriarcale, razziale, specista, abilista, di religione, culturale, ecc.4 C’è dunque un senso in cui il termine stesso “intersezionalità” appare problematico, perché tende a richiamare l’idea che ci siano assi di dominio che si intersecano ma potrebbe oscurare la loro interdipendenza a livello di sistema5.

In questo, il pensiero della decolonialità ci viene in aiuto, poiché descrive il capitalismo razziale, patriarcale e specista attraverso la metafora della “matrice di potere” (che in questo pensiero stesso viene articolata in queste dimensioni: organizzazione di lavoro, sessualità e genere, autorità, soggettività e sapere)6. L’idea della matrice sottolinea come le diverse categorie che determinano strutture e gerarchie non siano indipendenti le une dalle altre, ma anzi intrecciate e si supportano a vicenda. Per esempio, la natura femminilizzata e la femminilizzazione della natura concorrono da un lato a svalorizzare il corpo delle donne come “meramente” materiale ed affettivo piuttosto che razionale e astratto, e dall’altro a immaginare la natura come un che di fragile e bisognoso sia di gestione che di protezione da parte dell’Uomo [sic]. Similmente, l’animalizzazione dei soggetti razzializzati li costituisce come “meno umani” e – dunque – mere risorse da appropriare. Anche la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, che supporta l’iniqua distribuzione delle risorse e del potere nel contesto del lavoro, si può leggere dentro questo grande quadro. Si tratta di fenomeni collegati a un costrutto ideologico e pratico che si basa sulla costante separazione tra cultura e natura, uomo e donna, bianco e nero, ragione e corpo, soggetto e oggetto e che crea gerarchie e svalorizza il termine “minore” subordinandolo a quello maggiore. Questa distinzione – pur continuando alcune tendenze interne (ed esterne) alla storia occidentale – radicalizza e sistematizza le categorie che poi diventano basi ideologiche dell’oppressione.

Una categoria chiave dentro la costruzione di questa matrice di potere è proprio la distinzione tra Uomo e Natura, poiché sottende tutta una serie di rapporti e appropriazioni che vanno anche a definire il regime di accumulazione capitalista. Non a caso Moore7 parla della Natura come progetto di classe: dicotomizzare l’uomo-soggetto (bianco, abile, europeo, eteronormato) dalla natura-oggetto (che include non solo la biosfera ma anche animali non umani, donne, soggetti razzializzati) è funzionale a creare territori e corpi a perdere. Un sistema in cui i soggetti della riproduzione, svalorizzati, diventano i presupposti di una accumulazione che non si può semplicemente basare sullo sfruttamento del lavoro salariato. Nonostante questa costruzione ideologica sia tipicamente funzionale allo sviluppo capitalista, il suo emergere è complesso e, innanzitutto, legato alla storia coloniale. Dussel8 suggerisce che la distinzione tra io-soggetto e mondo-oggetto in effetti nasca da una volontà di potere e da una pratica di conquista: serve al colonizzatore per annientare il colonizzato, serve all’uomo per appropriare il lavoro della donna, serve nelle pratiche estrattive per drenare vita dai territori senza doversene prendere in carico il peso. L’io penso, l’individuo sovrano, è preceduto dall’io conquisto. In questo senso il capitalismo come progetto di Terraformazione9 ha sempre tenuto, e continua a tenere insieme (come il caso palestinese suggerisce) pratiche di ecocidio e genocidio. Il risultato è il tentativo di subordinare tutto il pianeta a un ideale parziale che si fa universale: lo sviluppo sotto forma di accumulazione. Questo è un processo che subordina il mondo a logiche che sono insieme di valorizzazione (messa-a-lavoro dei corpi e del vivente tutto) e svalorizzazione (esistenza a perdere), dentro gradi diversi di dominio, per esempio nella gerarchia tra sfruttamento del lavoro produttivo e appropriazione.

Guardare alla crisi socio-ecologica da una prospettiva intersezionale/decoloniale mette in luce:

  1. Il tema del margine come costrutto discorsivo e materiale che crea la separazione e l’esternalizzazione: da una parte il privilegio, dall’altra parte l’esistenza a perdere (svalorizzata, meno importante), è dunque possibile leggere la colonialità come un processo che esiste non solo su scala planetaria ma anche locale
  2. Lo stato come istituzione centrale dell’autorità e del potere, che supporta e legittima colonialità interna (Pablo González Casanova) ed esterna
  3. Il tema del sapere e dei saperi e di come la (s)valorizzazione di alcuni sia funzionale alla cancellazione di determinate forme di soggettività (o la loro legittimità)
  4. La critica all’universalità: l’idea che ci sia un modo “corretto” e migliore di esistere, lavorare, organizzarsi politicamente, imparare, ecc. emerge proprio dal fatto che una specifica soggettività si erge a Soggetto, riducendo tutto il resto a oggetto. Da qui lo stesso concetto di “sviluppo”/“progresso” in quanto tendere ad un modello superiore e ideale di vita, economia, società.

Tutto ciò implica, per la decrescita, sicuramente rinsaldare la nozione di crescita come imperativo del capitalismo, che per farvi fronte si appropria della biosfera e dei soggetti della riproduzione. Quindi, nel criticare la crescita capitalista non è sufficiente tenere in considerazione le forme del lavoro produttivo: serve dare conto di questi livelli meno visibili di appropriazione e accumulazione. Perciò, non esiste critica alla crescita senza una critica alla “matrice di potere” che la supporta: quindi ai rapporti coloniali e patriarcali oltre che di classe, per cui è necessario espandere le categorie tradizionali della critica. Ci mette sul piatto la priorità di lavorare sulla decostruzione costante dei margini che permettono di esternalizzare corpi e territori, assumere totalmente la corresponsabilità della riproduzione della nostra vita in quanto umani abitanti di ecologie situate e planetarie, smettendo di “spostare” rischi e danni su altrove e altri soggetti. Ciò significa anche che è importante supportare le lotte decolonilali e delle donne perché attraverso le rivendicazioni che affermano fortemente il proprio diritto a non essere corpi e territori a perdere già si mettono in discussione le basi materiali della crescita e dell’accumulazione capitalista – il “non qui” non come NIMBYism (il rifiuto di subire danni o rischi sul proprio corpo, ma accettare che avvengano altrove) ma come rifiuto sistemico dell’idea che ci siano soggetti in diritto di determinare l’esistenza di altri (umani, non umani). Inoltre, esse portano visioni del mondo, della vita e dello stare insieme che potrebbero essere estremamente preziose per una transizione equa e profonda. In questo, è fondamentale coltivare il pluriverso come spazio dove l’universalità del soggetto moderno si decostruisce e deve convivere con diverse soggettività, che significa anche modi di vivere, organizzarsi politicamente ed economicamente. Dove l’universalità della crescita-come-sviluppo lascia spazio a progetti di ben vivere.


Note

1 https://www.decrescitafelice.it/2023/03/decrescitadecolonialitaintersezionalita/
2 Barca, S. (2023) Le forze di riproduzione. Per un’economia di cura. Milano: Edizioni Ambiente.
3 Crenshaw, K. (1991) ‘Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence against Women of Color’, Stanford Law Review, 43(6), pp. 1241–1299.
4 Salleh, A. and Somali, C. (2021) ‘Gender and Just Transitions’, Institute for Global Development – UNSW Sydneyhttps://www.igd.unsw.edu.au/conversation-just-transition-ariel-salleh.
5 Bohrer, A.J. (2019) Marxism and intersectionality: race, gender, class and sexuality under contemporary capitalism. Bielefeld: Transcript (Philosophy).
6 Mignolo, W.D. (2007) ‘DELINKING: The rhetoric of modernity, the logic of coloniality and the grammar of de-coloniality’, Cultural Studies, 21(2–3), pp. 449–514.
7 Moore, J.W. (2015) Ecologia-mondo e crisi del capitalismo: la fine della natura a buon mercato. Edited by G. Avallone. Verona: Ombre Corte.
8 Dussel, E. (2018) Anti-Cartesian meditations and transmodernity. From the perspectives of philosophy of liberation. Den Haag: Amrit, Uitgeverij.
9 Ghosh, A. (2022) La maledizione della noce moscata parabole per un pianeta in crisi. Vicenza: Neri Pozza.

L’immagine rappresenta un momento dello spettacolo Detonazione (voce e contrabbasso, scritto e interpretato da Carlotta Sarina, e dedicato alla musica come lotta, al riscaldamento globale e alla fast fashion) durante la conferenza Beyond growth (Roma, 20 aprile).