Di Paolo Cacciari; 16 luglio 2021
Jason Hickel e Giorgos Kallis, un antropologo e un economista, si sono interrogati se sia davvero possibile realizzare una “crescita verde” (J.Hickel, G.Kallis, is Green Growth Possible?, New Political Economy, 17 aprile 2019). Un quesito che osa mettere in dubbio la narrazione oggi dominante (dopo la ingloriosa scomparsa dalla scena dei “negazionisti” alla Trump) secondo cui tutto è, o dovrebbe diventare, da qui a pochi anni, green friendly, ecosostenibile, a impatto zero. L’energia dovrebbe decarbonizzarsi, i beni e i servizi di largo consumo dovrebbero diventare smart, l’economia dovrebbe diventare circolare, la finanza dovrebbe avere un impatto positivo, le singole imprese dovrebbero rispondere ai requisiti Esg (Environmental, Social, Governance) e così via fino a rientrare nei parametri della sostenibilità climatica stabiliti sei anni fa alla Conferenza sul clima di Parigi e rimbalzati sulle sponde dell’oceano Atlantico con i piani Green Deal delle nuovi amministrazioni europea e statunitense.
Depuriamo la “crescita verde” da tutti gli inganni (greenwashing), le falsità e le vere e proprie truffe messe in atto da chi si approfitta della vulgata ecologista. (In questa categoria rientrano anche l’Emission Trade System, le tecniche di geoingegneria compresa la cattura e lo stoccaggio della CO2, la “tassonomia” europea degli investimenti verdi con dentro il gas e il nucleare e molto altro ancora). Soprassediamo anche dall’impietosa analisi storica empirica degli effetti concreti che hanno avuto sugli ecosistemi gli ultimi cinquant’anni di sedicente “sviluppo sostenibile” (la prima conferenza dell’Onu sull’”eco sviluppo” risale a Stoccolma nel 1972). Da parte nostra mettiamo da parte anche i pregiudizi ideologici nei confronti del sistema economico di mercato (market system). E diamo invece credito alla sincerità delle intenzioni dei sostenitori della teoria della “crescita verde”. Politici, manager, banchieri, economisti e columnist… tutti sostenitori della transizione ecologica.
La loro idea di base è che sia possibile disgiungere, disaccoppiare (decoupling è la parola usata) l’incremento del valore monetario dei beni e dei servizi scambiati sui mercati (Pil) dal flusso fisico ed energetico dei materiali vergini prelevati e dal rilascio di sostanze non metabolizzabili, inquinanti. Secondo loro, le innovazioni tecnologiche sarebbero in grado di “dematerializzare” i cicli economici (ricorrendo a fonti di energia rinnovabile e al recupero e riciclo di quanto viene messo in circolazione). La ricchezza monetaria, cioè, potrebbe continuare a crescere non per via della mera quantità delle merci immesse sul mercato, ma per la loro qualità in termini di basso consumo di natura (material footprint, throughput e output). La concorrenza tra le imprese produttrici avverrebbe tra chi riesce a fare di più con meno (riconversione energetica, recupero dei materiali, ecc.). Le preferenze dei consumatori (aiutati dalle politiche fiscali dei loro governi) premierebbero le produzioni a minore impatto ambientale. Insomma, la “crescita verde” ipotizza uno scenario accattivante, win-win, dove si potrebbe continuare ad incrementare la ricchezza monetaria preservando gli ecosistemi (altrimenti chiamati: capitale naturale e servizi ecosistemici). Fare soldi facendo del bene all’ambiente non sarebbe poi un peccato. Un mondo dove trionferebbero gli imprenditori virtuosi (con commissioni etiche che affiancano i consigli di amministrazione, come consigliato dalla Economy of Francesco), i consumatori informati (coloro che “votano con il portafoglio”) e i governi lungimiranti. Ma, questo idilliaco quadro teorico non regge alle confutazioni dei nostri autori, Hickel e Kallis. Per due motivi: uno logico-formale, l’altro empirico.
Il decoupling funziona fino al limite in cui un’impresa può sfruttare un margine di recupero di efficienza (vantaggio competitivo), ma finirebbe di produrre utili se tutto il sistema si stabilizzasse su standard ottimali di neutralità degli impatti ambientali. In altre parole, è possibile ipotizzare un decoupling relativo, ma non assoluto. Ipotizziamo che tutto il mondo raggiunga gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e si riuscisse ad avere tutta l’energia che serve senza creare gas ad effetto serra. Raggiunto quel punto di equilibrio (stato stazionario) non servirebbe più estrarre surplus monetari dall’energia prodotta, ma solo quel tanto che basta per il mantenimento del funzionamento del sistema. Un altro esempio. Ammettiamo che le belle politiche agroecologiche della Fao venissero realizzate davvero. Ogni popolo del pianeta avrebbe di che sfamarsi con la terra che ha a disposizione (sovranità alimentare a filiera corta). A quel punto non avrebbe alcun senso aumentare le rese delle coltivazioni, la profittabilità delle imprese agroalimentari e la accumulazione dei loro capitali. Insomma, se i sistemi economici raggiungessero la sostenibilità ecologica, significherebbe che i beni e i servizi a disposizione dell’umanità sarebbero diventati abbondanti e bastevoli. La prosperità inizia quando finisce la crescita, poiché la crescita presuppone la scarsità. Ha scritto in un altro articolo Giorgos Kallis: “Il capitalismo non può sopravvivere in condizioni di abbondanza”.
Questo sul piano teorico. Sul piano banalmente empirico è impossibile pensare di realizzare una dissociazione tra crescita quantitativa e sostenibilità ecologica (un decoupling anche solo relativo) in un contesto socioeconomico di tipo capitalista. I vantaggi che un’impresa capitalistica (o un sistema di imprese, o uno stato) può ricavare dal “risparmio” sull’impiego di fattori materiali di produzione (parliamo di materie prime, ma potemmo parlare allo stesso modo anche di forza lavoro umana) dovrà essere reinvestito per accrescere i rendimenti monetari dei suoi azionisti in una spirale senza fine di crescita esponenziale. In questa logica economica il sistema non potrà mai raggiungere un equilibrio stabile. Cosicché i beni e i servizi messi in vendita (è l’offerta che genera la domanda) tenderanno inevitabilmente a crescere perennemente. “Il capitalismo sta nell’investire capitale per creare più capitale per investire di più.” (Wolfgang Streek).
Inutile dire che, per quanto le merci possano presentarsi come eteree, minuscole, sempre più rispondenti a bisogni immateriali, esse pur sempre hanno un contenuto fisico, misurabile in kg e kilowattora. Si suole dire che le Big Data fanno utili vendendo informazioni. Vero (tralasciamo qui di ricordare che tra server e sistemi di trasmissione le compagnie Itct consumano tanta energia quanto tutto il settore aereonautico), ma quelli che comprano le loro informazioni le usano per vendere hamburger, crociere su grandi navi, smartphone, scarpe da ginnastica, telefilm e pillole contro la depressione. Cosicché la massa antropogenica di oggetti creati dall’umanità ha superato la biomassa (animali e piante) esistente sul pianeta (Miguel Martinez su comune-info.net). Gli effetti si vedono a vista d’occhio. La “seconda natura” artificiale sta soffocando la prima e unica natura capace di vivere e rigenerarsi.
Nonostante i proclami del Reset Capitalism (riconfigurazione dei programmi operativi), non si intravede una via di mercato alla sostenibilità. Non pare esistere un “capitalismo benevolo” capace di limitare la sua crescita. Attribuire un valore economico alla natura (così da renderla una merce più cara) peggiora, non risolve la questione della sostenibilità. Non serve un sistema di calcolo inglobante la natura nei cicli economici (System of Environmental Economic Accounting). La sua esistenza e preservazione non è una questione di prezzo. Rendere la natura una merce non la salverà dalla sua distruzione nei cicli produttivi. Ma, al contrario, bisognerebbe proclamare una teorica del valore che sancisse la incommensurabilità, esclusività e sacralità della natura. Servirebbe una nuova teoria del valore che non facesse discendere il valore delle cose dal prezzo dei suoi fattori e nemmeno dal loro valore d’uso, ma dalla loro consistenza ai fini della preservazione della vita sulla Terra.
Concludono Hickel e Kallis: “Certo, abbiamo bisogno di tutte le possibili innovazioni tecnologiche e dobbiamo orientare le politiche governative per guidare queste innovazioni, ma non saranno sufficienti in sé. Affinché i guadagni in efficienza siano efficaci, dovremmo ridimensionare anche l’attività economica aggregata. È più plausibile che saremo in grado di raggiungere le necessarie riduzioni dell’uso delle risorse e delle emissioni senza crescita, che con la crescita.(…) Rimanere dentro i confini planetari può richiedere una decrescita della produzione e dei consumi”.