di Gianni Tamino, biologo (Università di Padova), Associazione per la Decrescita
Pandemie e condizioni del Pianeta
L’obiettivo evolutivo di tutte le forme viventi è la propria riproduzione, per colonizzare l’ambiente di vita, obiettivo che entra in relazione, talora conflittuale, con lo stesso obiettivo riproduttivo di tutti gli altri organismi: da queste relazioni si sviluppano gli equilibri che caratterizzano gli ecosistemi e che pongono limiti alla crescita delle popolazioni e dei consumi di ciascuna specie. In ecologia si parla di carrying capacity (o capacità di carico) per spiegare che, sulla base delle caratteristiche di un ecosistema, gli individui di una popolazione non possono superare i limiti imposti dalle risorse disponibili. Un classico esempio per spiegare questo fenomeno è quello della relazione tra preda e predatore: alla crescita del numero di predatori corrisponde una diminuzione significativa del numero delle prede, che innesca – per scarsità di cibo – un conseguente calo anche dei predatori.
Nel caso della popolazione umana si utilizzano concetti simili a quelli di carrying capacity ma con terminologie e metodi di valutazione un po’ diversi. Si parla di “impronta ecologica”, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano. Questa analisi facilita il confronto tra regioni, rivelando l’impatto ecologico delle diverse strutture sociali e tecnologiche e dei diversi livelli di reddito. Così l’impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA o dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore di un paese non industrializzato, per cui sul pianeta un solo statunitense “pesa” più di 10 afgani.
L’Overshoot Day è, invece, il giorno in cui il consumo di risorse naturali da parte dell’umanità inizia a superare la produzione che la Terra è in grado di mettere a disposizione per quell’anno: nel 2019 questo giorno è stato il 29 luglio. Dunque in circa sette mesi, abbiamo usato una quantità di prodotti naturali pari a quella che il pianeta rigenera in un anno. Il nostro deficit ecologico, pari a cinque mesi, provoca da una parte l’esaurimento delle risorse biologiche (pesci, alberi ecc.), e, dall’altra, l’accumulo di rifiuti e inquinamento, responsabile anche dell’effetto serra. Le attività umane stanno, dunque, cambiando l’ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in alcuni casi irreversibile. Stiamo dunque superando, anzi abbiamo già superato i limiti delle capacità del pianeta di sostenere la popolazione umana e mettiamo a rischio la sopravvivenza di molte altre specie. L’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo sta gravemente compromettendo anche la biodiversità del pianeta. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione.
Le dimensioni e i consumi delle popolazioni umane sono variati moltissimo nel corso dei millenni, ma ogni volta che le risorse disponibili diventavano insufficienti, le popolazioni venivano ridimensionate, attraverso sistemi di autoregolazione.
Fino a 12 mila anni fa la popolazione umana di raccoglitori e cacciatori, già presente in tutto il pianeta, per motivi di sostenibilità, cioè disponibilità di cibo, non superava probabilmente 1-2 milioni di abitanti, dato che ogni tribù doveva avere un ampio territorio di raccolta e di caccia e quel cibo costituiva il limite alla crescita. Si trattava di un sistema ben autoregolato e in equilibrio con il proprio ambiente; in qualche modo le società di allora potevano essere felici, perché utilizzavano quanto la natura offriva loro, senza un lavoro che occupava tutto il tempo di vita e quindi con tempi adeguati per le relazioni e per il riposo, come il mitico periodo dell’Eden.
In seguito, in varie zone del pianeta, come nella mezzaluna fertile, in medio oriente, un importante cambiamento climatico, con riscaldamento globale, diffusione di animali e piante nelle regioni in cui il clima divenne più caldo e umido, favorì la cosiddetta rivoluzione neolitica, cioè l’agricoltura e l’allevamento. In tal modo i limiti della crescita demografica cambiarono perché, seminando piante e allevando animali, sullo stesso territorio si potevano sfamare fino a 1000 persone anziché 40-50, portando la popolazione ben oltre la dimensione di un paio di milioni. Tuttavia quando l’annata dava raccolti scarsi o quando la popolazione cresceva troppo, non restava altra via che la migrazione verso nuove terre da coltivare. Così pian piano questa nuova cultura si estese, a partire dall’Anatolia, a tutta l’Europa e, partendo da altre zone, a gran parte dell’Asia e parte dell’Africa. In tal modo la popolazione mondiale arrivò prima a decine, poi a centinaia di milioni di abitanti, già alcuni secoli avanti Cristo. Si stima che nell’Impero Romano, tra il 300 ed il 400 d.C., vivessero tra 60 e 120 milioni di abitanti; ma tale popolazione fu duramente colpita dalla cosiddetta Peste di Giustiniano, che portò a decine di milioni di decessi. In pratica quando, in base alle caratteristiche ambientali, climatiche, politiche e tecnologiche (capacità di produrre cibo), si superava il limite demografico per quel territorio, intervenivano fattori ambientali e sociali che riportavano la popolazione sotto il limite. Analogamente tra il ‘300 e il ‘600 scoppiarono varie epidemie, associate a carestie e guerre, come la peste decritta dal Manzoni ne “I promessi sposi”, e la popolazione europea subì periodiche drastiche riduzioni.
Anche l’emigrazione ha costituito un elemento equilibratore dell’incremento demografico. La popolazione europea ha trovato, dopo la scoperta dell’America, nuove terre da coltivare, spazi da abitare, ricchezze da sfruttare, sottraendoli ai nativi che, oltre a essere massacrati, venivano debilitati da epidemie di malattie portate dai conquistatori.
Oltre alle epidemie di peste già ricordate, nel corso della storia umana, anche recente, si sono succedute molte altre epidemie/pandemie, alcune collegate a guerre e carestie.
Tra le molte succedutesi, vanno ricordate le ricorrenti epidemie di tubercolosi, malaria, colera, dissenteria, AIDS, ebola e soprattutto le recenti pandemie di influenza (spagnola, asiatica, Hong Kong, suina e aviaria), oltre ad altri tipi di coronavirus, precedenti il Covid-19 (SARS e MERS). Ma non va dimenticata la comune influenza stagionale, che, pur con un tasso di letalità inferiore a 0,1 (cioè meno di un decesso per mille malati), causa ogni anno, secondo l’OMS, circa mezzo milione di morti in tutto il mondo e secondo Epicentro, considerando decessi diretti e per complicanze a malattie pregresse, si arriva a circa 8 mila morti all’anno in Italia.
Certamente il più rilevante ed interessante caso recente di pandemia è quello dell’influenza spagnola (1918-20), forse la peggiore pandemia della storia dell’umanità per numero di contagiati e di morti. Tra il 1918 e il 1920 contagiò circa un terzo della popolazione mondiale, mietendo molte decine di milioni di morti, dal momento che aveva una letalità superiore al 2,5%. Mentre normalmente i tipi nuovi di virus attaccano soprattutto anziani e persone debilitate, questo tipo di virus fu particolarmente letale nei soggetti tra i 15 e i 44 anni. Venne chiamata “Spagnola” perché fu comunicata per la prima volta dai giornali spagnoli, ma l’origine venne poi identificata in un ospedale militare francese, a Etaples, sovraffollato, impegnato a curare migliaia di soldati vittime di attacchi chimici e di ferite di guerra: era un luogo ideale per la diffusione di un virus respiratorio.
Questa pandemia, sorta sul finire della prima guerra mondiale, mette in evidenza la relazione tra le limitate risorse, la malnutrizione (carestia), la scarsa igiene e una popolazione, soprattutto giovani militari ammassati al fronte, debilitata dalla guerra.
Come abbiamo visto, epidemie e pandemie sono uno dei possibili meccanismi di controllo delle popolazioni, insieme a carestie, guerre e migrazioni: quanto più si superano i limiti della disponibilità di risorse del territorio, quanto più si altera l’ambiente di vita, tanto più facilmente uno o tutti insieme questi meccanismi entrano in funzione. La crescita della popolazione umana fino a più di 7 miliardi di abitanti è stata resa possibile dalla Rivoluzione Industriale, che ha utilizzato enormi quantità di energia di origine fossile per attività impensabili in precedenza, non solo nell’industria, ma anche in agricoltura, con la cosiddetta Rivoluzione Verde. Tuttavia il cibo ottenuto potrebbe sfamare anche più di 7 miliardi di persone se venisse equamente distribuito e prodotto in modo sostenibile, ma una iniqua utilizzazione delle risorse, una crescente disparità tra pochi ricchi e molti poveri, una riduzione delle terre coltivabili a causa della cementificazione, la perdita di fertilità dovuta alle monocolture gestite chimicamente, l’inquinamento ambientale, l’alterazione del clima, danno origine a frequenti casi di carestie e di malnutrizione in ampie fasce della popolazione, soprattutto al sud del mondo.
A partire dalla rivoluzione industriale abbiamo imposto un’economia lineare su un Pianeta che invece funziona in modo ciclico. La conseguenza è una continua crescita dell’inquinamento e un cambiamento climatico sempre più minaccioso per il mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità. Tutto ciò comporta la morte prematura di molti milioni di persone, ma anche un incremento di malattie cronico-degenerative, con conseguente indebolimento di tutta la popolazione, che risulta meno idonea a difendersi da altre malattie come quelle infettive.
I cambiamenti climatici e la riduzione delle foreste con l’alterazione degli habitat di molte specie animali, mette sempre più facilmente a contatto animali selvatici con esseri umani, un contatto ancora più stretto quando questi animali vengono catturati per essere venduti in mercati affollati, rendendo più facile il salto di specie per i loro patogeni (si pensi al virus di ebola). Inoltre gli allevamenti, in particolare di polli e suini, con concentrazioni di molti capi in spazi ridotti, alimentati con mangimi contenenti antibiotici, favoriscono una forte pressione selettiva sui loro virus e batteri, che mutano velocemente verso ceppi e tipi più aggressivi anche verso la specie umana, come è avvenuto per l’influenza aviaria e suina.
Un’ulteriore contributo alla diffusione di agenti patogeni è dato poi dalla globalizzazione, che, grazie al frenetico trasferimento in ogni parte del pianeta di persone e merci, favorisce il passaggio da epidemie a pandemie.
La pandemia da Covid-19
Dunque la nuova pandemia del virus Covid-19 era prevedibile e ampiamente prevista, se non proprio nei termini e nei tempi precisi, sicuramente come evento probabile.
Già nel 1972, nel rapporto del MIT per il Club di Roma, dal titolo “I limiti dello sviluppo” si affermava che se la popolazione mondiale continuava a crescere al ritmo di quegli anni, la crescente richiesta di alimenti avrebbe impoverito la fertilità dei suoli, la crescente produzione di merci avrebbe fatto crescere l’inquinamento dell’ambiente, l’impoverimento delle riserve di risorse naturali (acqua, foreste, minerali, fonti di energia) avrebbe provocato conflitti per la loro conquista; malattie, epidemie, fame, conflitti avrebbero frenato la crescita della popolazione.
Vi è poi il libro “Spillover” di David Quammen; egli stesso spiega in una recente intervista: “Nel 2012, quando il libro è stato pubblicato, ho previsto che si sarebbe verificata una pandemia causata da 1) un nuovo virus 2) con molta probabilità un coronavirus, perché i coronavirus si evolvono e si adattano rapidamente, 3) sarebbe stato trasmesso da un animale 4) verosimilmente un pipistrello 5) in una situazione in cui gli esseri umani entrano in stretto contatto con gli animali selvatici, come un mercato di animali vivi, 6) in un luogo come la Cina. Non ho previsto tutto questo perché sono una specie di veggente, ma perché ho ascoltato le parole di diversi esperti che avevano descritto fattori simili.”
Questa pandemia, oltre a quanto già previsto da Quammen, è caratterizzata da un nuovo virus, che risulta molto contagioso, con letalità non molto elevata (circa 2-3%, comunque ben più alta della letalità della normale influenza che è intorno a 0,1%), perciò difficile da contenere e prevenire, tanto più che la maggior parte dei contagiati è asintomatica o con sintomi poco diversi dalla solita influenza. Avendo fatto da poco il salto di specie, il virus non trova ostacoli nella popolazione, senza difese anticorpali. Se si riuscirà a contenere la sua avanzata, come sembra sia avvenuto in Cina e nella Corea del Sud, grazie ad efficaci metodi di riduzione dei contatti tra le persone, ci sarà comunque un significativo numero di decessi tra la popolazione più anziana e soprattutto con patologie pregresse. Dobbiamo poi sperare che, come succede per altre infezioni da raffreddamento, con la stagione più calda si possa avere un’attenuazione della diffusione, ma di questa ipotesi non c’è alcuna certezza e l’evoluzione della pandemia è ancora tutta da scoprire.
In ogni caso il pericolo maggiore sta nella rapida crescita dei contagiati, con un numero significativo di ospedalizzati e circa l’8% dei positivi che ha bisogno di un trattamento di terapia intensiva. Se il numero dei positivi con sintomi significativi dovesse crescere ancora molto, entrerebbe in crisi il sistema sanitario, non solo perché non ci sarebbero posti per tutti nella terapia intensiva, ma si sottrarrebbero posti letto per gli altri malati, anche molto gravi (traumatizzati, oncologici, ecc.).
Per queste ragioni è fondamentale contenere la diffusione con ogni intervento che riduca i contatti personali e risulta incredibile la proposta fatta in Gran Bretagna da Boris Johnson, di lasciare che l’epidemia si diffonda nel paese fino ad un contagio del 60-70% della popolazione, per ottenere l’immunità di gregge: questa ipotesi significherebbe che circa 40 milioni di inglesi verrebbe contagiata e che, con i dati attuali di letalità (confermati anche dall’OMS), ci sarebbero circa un milione di decessi provocati o direttamente dal virus o dall’interazione tra virus e precedenti malattie. Inoltre non c’è alcuna certezza di una adeguata immunità di gregge sia perché per certe epidemie virali serve superare l’85% della popolazione infetta, sia perché sembra che possano esserci delle ricadute, anche in persone già guarite, data la probabile mutabilità del virus.
Come evitare pandemie future
Questa pandemia può costituire un utile avvertimento, per evitare nuove e più gravi pandemie, sicuramente probabili. Il Covid-19 è una reazione (tra le altre) allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e quindi per prevenire nuovi eventi simili dobbiamo ridurre le alterazioni dell’ambiente, come la perdita di biodiversità, l’alterazione degli habitat e i cambiamenti climatici, favorendo processi produttivi industriali ed agricoli basati sull’economia circolare, sostenibili, con ricorso a fonti energetiche rinnovabili.
Già pochi mesi di blocco dei movimenti delle persone e di parziale riduzione di attività produttive hanno portato ad un netto miglioramento della qualità dell’aria sia in Cina che in Italia (soprattutto nel Veneto): questo dato va colto non come futura necessità di impedire la circolazione delle persone e delle merci o di non produrre beni necessari, bensì di ripensare i trasporti e le produzioni industriali ed agricole, in particolare ridurre gli allevamenti animali: attualmente vi sono nel mondo 1,5 miliardi di bovini, 1 miliardo di suini, oltre 1,5 miliardi di ovini e caprini e circa 50 miliardi di volatili. La massa degli animali allevati è ben maggiore di quella di tutti gli esseri umani, con enormi sprechi di cibo, forte inquinamento e forte aumento di virus e batteri che possono fare il salto di specie. Inoltre l’abuso in zootecnia di antibiotici è responsabile anche dell’aumento di batteri resistenti agli antibiotici, vanificando uno degli strumenti a nostra difesa da queste infezioni. Oltre a nuove pandemie virali, il futuro potrebbe riservarci una diffusione pandemica di nuovi batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico.
Non possiamo dimenticare, nell’ottica di “carestie, pandemie, guerre”, che stiamo assistendo a continue guerre locali, come quella in Siria, ma se la guerra diventasse globale, rischiamo la catastrofe conseguente all’uso di armi nucleari.
Secondo l’OCSE (rapporto del 2018 sulla fragilità degli stati) entro il 2030, fino a 620 milioni di persone, circa l’80% della popolazione più povera nel mondo, vivrà all’interno di Stati fragili, che attraversano situazioni di emergenza, esposti a conflitti, epidemie, povertà estrema, come effetti dei cambiamenti climatici. Queste popolazioni, così fragili ed indebolite, sono “terreno fertile” per la diffusione di epidemie, che, attraverso le inevitabili migrazioni, diverranno gravi pandemie: dobbiamo porre un freno a questo suicidio di massa, non solo cambiando il modo di produrre, di utilizzare le risorse naturali, ma cambiando completamente il paradigma culturale, economico, sociale e politico che ci ha portato a questo punto, che rischia di essere “un punto di non ritorno”.
Ma la pandemia ha anche messo in evidenza carenze dei sistemi sanitari nazionali, soprattutto di quei paesi dove si è scelto di smantellare il sistema pubblico: invertire questa tendenza e finanziare adeguatamente le strutture sanitarie pubbliche, insieme alle politiche di prevenzione, sarà un fondamentale argine a future pandemie.
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