Di Serge Latouche (pubblicato su comune-info il 05 Ottobre 2013).

Lo slogan della decrescita si può raccontare come un’intuizione radicalmente marxista, intuizione che il marxismo avrebbe tradito, dice Serge Latouche. «La crescita, infatti, non è che il nome “volgare” del fenomeno che Marx ha analizzato come accumulazione illimitata di capitale, fonte di tutti i guasti e le ingiustizie del capitalismo. Il profitto è il fine dell’accumulazione del capitale così come l’accumulazione del capitale è il fine del profitto. Parlare di una crescita o di un’accumulazione del capitale buone, di uno sviluppo buono, equivale pertanto a dire che esistono un capitalismo buono (verde o sostenibile, magari) e uno sfruttamento buono. Per uscire da una crisi che è inestricabilmente ecologica e sociale, bisogna uscire dalla logica dell’accumulazione infinita del capitale e dalla subordinazione di tutte le decisioni essenziali alla logica del profitto».

Diciamolo in maniera ancora più chiara: il prezzo da pagare per la libertà è la distruzione dell’economico in quanto valore centrale e, di fatto, unico. È un prezzo davvero tanto alto? Per me, certamente no: preferisco infinitamente avere un nuovo amico piuttosto che un’automobile nuova. Preferenza soggettiva, senza dubbio. Ma «oggettivamente»? Lascio volentieri ai filosofi politici il compito di «fondare» lo (pseudo)-consumo in quanto valore supremo. Cornélius Castoriadis

Si intitola «Incontri di “un obiettore di crescita”» il libro edito in Italia da Jaca Book
 che presenta una serie di articoli di Latouche pubblicati sul settimanale francese «Politis». L’Unità ne ha anticipato un capitolo

Uscire dal vicolo cieco della società della crescita, significa trovare le vie che ci consentano di costruire il mondo «altro» della sobrietà volontaria e dell’abbondanza frugale che noi riteniamo possibile; prima però bisogna uscire dai solchi del pensiero «critico», ossia di quelle vecchie idee preconfezionate che costituiscono il valore d’avviamento delle sinistre, di tutte le sinistre. Inventare modi nuovi di fare politica significa ripensare la politica e trovare una soluzione allo stallo della politica politicante. Una delle ragioni, forse la principale, del fallimento del socialismo, è stata la volontà egemonica di un discorso e di un modello. Non che non ve ne fossero parecchi, tra leninismo, stalinismo, maoismo, trotskismo e socialdemocrazia, ma nessuna corrente di pensiero e nessun modello concreto è riuscito ad accogliere la pluralità della verità e la diversità delle soluzioni concrete.

Certo, Marx, nella sua celebre lettera del 1881 a Vera Zasulic, evocava la possibilità di un passaggio diretto dalla comunità contadina tradizionale russa, il mir, al socialismo, saltando la tappa capitalista. La possibilità di un percorso diverso è stata ripresa anche per l’Africa, dopo l’indipendenza; ed è stata nuovamente evocata a proposito degli zapatisti e delle comunità indigene del Messico. Tuttavia, è noto che Engels, dieci anni dopo la morte di Marx, si mostrava molto più scettico sull’argomento e che dopo altri venti anni Lenin attaccava teoricamente e praticamente queste «sopravvivenze», che Stalin avrebbe spietatamente liquidato. I vari «marxismi reali» del Terzo Mondo non si sono mostrati più teneri nei riguardi delle strutture comunitarie precapitaliste. La modernizzazione «socialista» ha fatto tabula rasa del passato con una violenza e un accanimento perfino maggiori di quelli della modernizzazione capitalista, facilitando così il compito della globalizzazione ultraliberista seguita alle sconfitte delle esperienze socialiste.

La crescita, ovvero accumulazione illimitata di capitale

La straordinaria varietà di vie e di voci del primo socialismo (frettolosamente liquidato con l’etichetta di socialismo romantico o utopistico) era stata infatti ridotta al pensiero unico del materialismo storico, dialettico e scientifico. Di conseguenza, la tolleranza della pluralità poteva essere accettata solo come concessione provvisoria tattica, che non modificava l’intolleranza di fondo. Tuttavia, si potrebbe presentare paradossalmente la decrescita come un progetto radicalmente marxista, progetto che il marxismo, e forse lo stesso Marx, avrebbero tradito. La crescita, infatti, non è che il nome «volgare» del fenomeno che Marx ha analizzato come accumulazione illimitata di capitale, fonte di tutti i guasti e le ingiustizie del capitalismo.

È già tutto, o quasi, contenuto nella famosa formula, spesso citata e commentata (e infine rinnegata) dai guardiani del tempio: «Accumulate, accumulate! Questa è la Legge e questo dicono i profeti!». L’essenza del capitalismo risiede nell’accumulazione del capitale, resa possibile dall’estorsione del plusvalore ai salariati. Assicurarsi un profitto soddisfacente è una condizione dell’accumulazione che ha a sua volta come unico fine la realizzazione di un profitto ancora maggiore. Questa logica, come notava già Marx, s’impone ai singoli capitalisti, e chi non vi si adegua sarà eliminato dalla concorrenza tra i capitali. In ultima analisi, dire che la crescita o accumulazione del capitale è l’essenza stessa del capitalismo, la sua finalità, è tanto corretto quanto dire che esso si fonda sulla ricerca del profitto. Il fine e i mezzi sono in questo caso intercambiabili.

Un capitalismo buono non esiste

Il profitto è il fine dell’accumulazione del capitale così come l’accumulazione del capitale è il fine del profitto. Parlare di una crescita o di un’accumulazione del capitale buone, di uno sviluppo buono – come, per esempio, una mitica «crescita messa al servizio di una migliore soddisfazione dei bisogni sociali»–, equivale pertanto a dire che esistono un capitalismo buono (verde o sostenibile, magari) e uno sfruttamento buono.

Per uscire da una crisi che è inestricabilmente ecologica e sociale, bisogna uscire dalla logica dell’accumulazione infinita del capitale e dalla subordinazione di tutte le decisioni essenziali alla logica del profitto. È per questo che la sinistra, se non vuole rinnegare se stessa, dovrà abbracciare senza riserve le tesi della decrescita.