di Michela Mosoni
Guardo un reel su Instagram, una ragazza dalla pelle levigata e scintillanti occhi verdi, ancheggia a ritmo di musica. Non è una ballerina, non è una modella, è una nutrizionista. Mentre mille stelline virtuali la avvolgono, indica gli alimenti consigliati per una colazione sana, che appaiono via via intorno a lei.
Mi sposto su Facebook. Scorro le stories dei miei “amici”: nel fine settimana, che è appena terminato, c’è chi è andato al ristorante, chi a fare rafting, chi ha sperimentato un’avventurosa gita in montagna, chi è partito per una fuga romantica al mare. Il mio sguardo scivola fra piatti elaborati, cascate spumeggianti, camosci e stambecchi sulle cime pietrose, variopinti tramonti che rovesciano sfumature amaranto fra le onde. Tutti volti sorridenti, luminosi, perfetti.
Infine apro la mail.Come se avessi spalancato l’anta dell’armadietto più disordinato della cucina, vengo sommersa di messaggi che mi elencano una serie di oggetti che non ho, che, con tutta probabilità, mi servono e che, altrettanto probabilmente, non posso permettermi.
Sono bastati questi dieci minuti al cellulare, poco prima di alzarmi dal letto, per tuffarmi di nuovo, come ogni mattina, nel vortice della “modernità liquida”. Così, il sociologo polacco Zygmunt Bauman, poco più di vent’anni fa, ha definito il nostro contesto sociale post-moderno, per contrapporlo alla precedente solida società moderna.
Nell’età moderna, ogni aspetto della vita umana era posto come una salda costruzione: i comportamenti umani, le azioni e le scelte erano diretti verso obiettivi (più o meno consapevoli) e comportavano conseguenze, spesso prevedibili o quantomeno plausibili. L’individuo era produttore, edificava la sua vita, muovendosi all’interno di percorsi noti o conoscibili; per esempio, lavorava per assicurarsi l’essenziale di cui vivere, studiava o imparava un mestiere per vedersi riconosciuto un ruolo all’interno della comunità, vi erano netti confini, che segnavano ciò che era socialmente lecito o illecito, accettato o respinto, giusto o sbagliato. La rigidità sociale, nonostante ingabbiasse anche gli spiriti più liberi, tarpandone le ali, riusciva perfettamente nel compito di porre tutti gli esseri umani su di un sentiero segnato.
Oggi, al contrario, ogni piccola sfaccettatura delle nostre esistenze, può essere ritoccata artificialmente, come gli occhi della nutrizionista del reel, che, in realtà, sono castani invece che verdi, o come la sua pelle, che mostra i segni del tempo, ma che viene resa luminosa, liscia e uniforme da un filtro virtuale. Non importano gli studi intrapresi o le sue effettive competenze, i suoi followers ne seguono i consigli perché sembra giovane, carina e ammiccante, come, nell’immaginario comune, una donna dev’essere, d’altra parte.
Nulla ha un contorno netto e fissato: “tutta la verità è relativa, tranne questa affermazione”, sosteneva Bauman. Mentre l’uomo moderno perseguiva l’edificazione di una propria identità, quello postmoderno sfugge a qualsiasi tipo di determinazione, con la conseguenza di apparire diverso a seconda delle situazioni, generando nel contempo smarrimento e disagio in sé stesso e negli altri. Questo distacco dalla propria personalità è, spesso, alimentato dalla ricerca di omologazione agli standard proposti dalla società stessa, che identificano l’individuo come consumatore, in continua ricerca di beni, esperienze e sensazioni, con cui riempire le proprie giornate e i propri profili social. Diventa quindi importante documentare ogni evento, proponendone gli elementi più accattivanti, che suscitino ammirazione, approvazione e, perché no, anche un briciolo di invidia negli altri.
Per Bauman, oggi, l’esclusione sociale avviene proprio attraverso il meccanismo del consumo. Il “povero”, ossia chi non riesce a stare al passo nel concedersi tutto ciò che il mercato propone, prova un senso di frustrazione ed estraniamento, perché solo il consumatore è davvero parte della società. Muoviamo le nostre esistenze in un contesto collettivo e comunitario che vive per il consumo, dove ogni aspetto della vita è merce e ha un prezzo, anche la persona umana.
Bauman affronta il problema identitario attraverso figure esplicative, che ci guidano nella comprensione della liquidità sociale in cui siamo immersi. Pensiamo all’uomo dell’età moderna come a un pellegrino, che viaggia con uno scopo, una destinazione, ponendo le basi e lavorando sulla propria identità e il proprio domani.
Tuttavia, oggi, nella post-modernità, è venuto meno il percorso segnato: periodicamente cambiano i nomi delle strade, laddove si inerpicava una salita ora scivola una discesa, dove si snodava un tortuoso sentiero, ora corre un’autostrada e, viceversa, il comodo lastricato è divenuto un’esile traccia, invasa dalla vegetazione. Quindi il pellegrino non ha più senso di esistere, l’individuo post-moderno comincia ad andare a zonzo per le vie cittadine, cogliendo e assaporando le emozioni che il paesaggio suscita in lui, si trasforma in un “flâneur” baudelairiano.
Un’altra figura, osteggiata dalla modernità in quanto massima espressione di indipendenza e frattura con il solido costrutto sociale, ma che ha acquisito importanza e riconoscimento nella “società liquida” post-moderna è quella del vagabondo, il cui procedere senza meta è stato astutamente incanalato verso il consumo. Il vagabondare si è tramutato in un potente strumento al servizio della crescita economica, in quanto convogliato nelle corsie dei centri commerciali o nella navigazione fra i siti di e-commerce e alimentato, nonché esasperato, dalle seduzioni dello shopping. Ma l’accumulo di beni materiali, l’essersi assicurato il maggior numero di prodotti disponibili sugli scaffali dei negozi, non placa il continuo desiderio di ulteriori oggetti, stimolato dalla pubblicità e dal confronto, fisico e virtuale, con gli altri.
Scaraventato fra le onde della “modernità liquida”, troviamo anche il turista, che viaggia alla ricerca di nuove esperienze e sensazioni, provando a costruire la propria felicità attraverso effimeri piaceri, quali la meraviglia e lo stupore.
Queste emozioni, certificate e pubblicizzate attraverso i social network, rispecchiano una visione del mondo elaborata principalmente attraverso l’estetica: le immagini parlano, comunicano che siamo felici, dimostrano a tutti che ci siamo divertiti, che abbiamo una vita soddisfacente, che non siamo soli. Ma quante volte non rispecchiano la realtà? Quanto vuoto interiore nascondono?
Questo nostro smarrimento, di turisti e vagabondi, oltre a essere causa di infelicità e insoddisfazione, nasconde tremendi risvolti ambientali: ora più che mai, l’uomo sta diventando consapevole dell’impatto devastante del proprio stile di vita sul pianeta, ciò nonostante, persevera in questa spirale auto ed etero-lesionistica.
Inoltre, seppure sia aumentata, negli anni, la sensibilità nei confronti dell’ambiente, del paesaggio e della biodiversità, questa resta racchiusa in uno scompartimento separato dalla nostra quotidianità: anch’essa è relativa, interpretabile, può essere accantonata o ignorata nel momento in cui risulti scomoda, al fine di dipingere una realtà temporaneamente più confortevole e accettabile.
La soluzione è limpida ed è a portata di mano: per il benessere interiore, per combattere il disagio post-moderno, per contrastare il progressivo deterioramento degli ecosistemi del pianeta è necessario ridurre i consumi, così come esortato dalla concezione decrescista.
La decrescita non intende riproporre la fredda solidità dell’era moderna, ma offre un salvagente a chi fatica a stare a galla nella “liquidità” post-moderna, proponendo un paradigma culturale nuovo, svincolato dai meccanismi del mercato e del consumo, dove i valori non si assumono come imposizioni, ma si concretizzano come “beni relazionali”, volti a costruire una soddisfazione duratura e dove il rispetto e la tutela ambientali occupano un posto prioritario all’interno del vivere quotidiano.
Per svincolarsi dal consumo come fonte di appagamento e piacere, l’individuo deve riscoprirsi, partendo dal riconoscimento dei propri bisogni effettivi (che sono sostanzialmente difformi dai bisogni indotti di cui è attualmente schiavo), per poi comprendere e accettare gli altri e il diverso, e infine, arrivare a sentirsi parte attiva e propositiva della società.