Con la ricerca «Pesticides and public health: an analysis of the regulatory approach to assessing the carcinogenicity of glyphosate in the European Union» tre ricercatori – appartenenti ad altrettante Ong di Germania, Regno Unito e Austria – hanno messo in discussione il metodo scientifico impiegato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e dall’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) per classificare la pericolosità del glifosato per la salute pubblica. E lo fanno a partire da criteri di ricerca e linee guida per la valutazione del rischio previste dal Regolamento europeo 1272/2008.
Abbiamo chiesto al professor Carlo Modonesi dell’Università di Parma, membro del Comitato Scientifico dell’Associazione medici per l’Ambiente (Isde Italia), di aiutarci a capire meglio il contenuto di questa pubblicazione.
Chi sono gli scienziati che hanno prodotto questo paper?
Si tratta di ricercatori che operano in Ong di tre diversi Paesi. Nessuno degli autori è una star del settore, ossia di quelle “celebrità” che spesso si accomodano nei tanti salotti televisivi che dispensano ricette e informazioni scientifiche da salotto (appunto!).
A giudicare dai contenuti dell’articolo, si intuisce che i ricercatori possiedono un background scientifico di primo livello e non hanno alcuna intenzione di perdersi in sterili affermazioni ideologiche. L’articolo parla infatti di dati e di fatti veri e di come andrebbero letti in un’ottica scientifica non condizionata da interessi particolari; vale a dire, rispettando l’integrità scientifica, il buon senso e (non ultime) le stesse regole fissate dalle istituzioni europee.
In che cosa consiste l’errore metodologico dell’Efsa rilevato dallo studio?
L’errore principale rilevato nell’articolo di Clausing e colleghi riguarda le modalità operative che i panel dell’Efsa e dell’Echa hanno usato per esprimere i loro pareri di non cancerogenicità del glyphosate. Infatti, escludendo dalla propria analisi alcuni studi sperimentali che fornivano risultati positivi e significativi in relazione ad alcune patologie tumorali (soprattutto linfomi e tumori renali), le due agenzie impiegavano criteri del tutto arbitrari che producevano l’effetto di sottrarre dal processo valutativo dati importanti sulla cancerogenicità dell’erbicida.
Seguendo questa strada, l’Efsa e l’Echa sceglievano deliberatamente di escludere dalla propria casistica l’analisi obiettiva di alcune indagini sperimentali, che avrebbero rafforzato l’ipotesi di cancerogenicità dell’erbicida.
Perché deve farci riflettere?
Per molte ragioni che sarebbe troppo lungo elencare in modo conclusivo.
Un aspetto importante è che la scelta operativa dell’Efsa e dell’Echa è in contrasto con quanto previsto dal Regolamento europeo (CE) 1272/2008 in materia di «Classificazione, Etichettatura e Imballaggio» delle sostanze e delle miscele chimiche, e, come tale, ne costituisce un’aperta violazione.
La conclusione che se ne trae è che il “baco” rilevato nella valutazione delle agenzie europee, probabilmente non è dipeso da una svista o da un errore casuale (sempre possibili e giustificabili) ma da un orientamento sbagliato e consapevole nell’istruire la revisione dei dati di letteratura. Secondo gli autori dell’articolo, ciò legittima il dubbio che la procedura valutativa delle due Agenzie sia stata applicata in quel modo per evitare di arrivare alla stessa conclusione a cui era arrivata l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) che, com’è noto, nei primi mesi del 2015 aveva inserito il glyphosate in classe 2A (probabile cancerogeno per l’uomo).
Sintetizzando un po’, potremmo affermare che l’articolo dei tre autori deve farci riflettere innanzitutto perché fa luce su come viene pianificata e gestita in Europa l’autorizzazione commerciale dei composti di sintesi destinati a entrare nella catena alimentare (sia degli animali domestici che dell’uomo). In secondo luogo – ma questa è una considerazione più generale che non è inerente al lavoro specifico di Clausing e colleghi – perché nella valutazione del rischio delle agenzie europee non si tiene sufficientemente conto della tossicità ambientale di molti composti che, anche se non necessariamente cancerogeni, sono dannosi per una grande varietà di organismi. Tra questi, molti dei pesticidi più pericolosi e persistenti, il cui impiego senza attenzione alla precauzione ha determinato un drastico peggioramento della qualità chimica delle matrici ambientali, con effetti ecologici di proporzioni preoccupanti.
Lei è a conoscenza di un dibattito attorno a questo studio? Che cosa ne pensa la comunità scientifica?
Lo studio di cui stiamo parlando è recentissimo e al momento non mi risulta che abbia innescato un dibattito allargato sui media convenzionali che circolano nella comunità scientifica. Ma possiamo stare certi che, nei corridoi dei centri di ricerca e delle università, l’articolo è stato notato per la sua qualità e per la sua efficacia, senza dire del fatto che la rivista biomedica su cui è stato pubblicato ha un fattore di impatto di tutto rispetto. Sicuramente si tratta di un contributo importante nel chiarire alcuni passaggi critici della “vicenda europea” che negli ultimi anni ha avuto per protagonista il glyphosate. Più in generale, direi che il lavoro di Clausing e colleghi costituisce uno sforzo di revisione critica dell’operato delle agenzie europee destinato a lasciare una traccia difficilmente cancellabile. Detto questo, non è il primo… e certamente non sarà l’ultimo.
A questo punto, ci sono gli estremi per richiedere all’Efsa di rivedere il suo giudizio?
Gli estremi per rimettere in discussione il giudizio dell’Efsa sul glyphosate c’erano anche prima della pubblicazione del lavoro di Clausing e colleghi. Anche in Italia, molti ricercatori hanno più volte preso posizione contro il parere espresso dai panel di Efsa ed Echa.
Bisogna tuttavia convincersi che il punto non è di natura esclusivamente scientifica, perché è ormai evidente che nelle agenzie sovranazionali che hanno il compito di garantire la salubrità alimentare, e quindi la salute pubblica, spesso la scienza viene usata come un elastico, ossia viene messa in subordine ad altre “priorità”.
Per tale ragione, non possiamo prevedere quella che sarà la reazione dell’Efsa, né quella della Commissione, anche se, alla luce di questo nuovo contributo scientifico, l’operato dell’Efsa lascia ancora più perplessi.
L’esperienza degli ultimi dieci anni ci ha insegnato che le leve della decisione politica europea (e non solo europea) vengono manovrate sulla base di una serie di fattori in gioco, peraltro non tutti e non sempre visibili, inclusi il peso che riescono a conquistarsi i gruppi di pressione e i condizionamenti determinati dai pesanti conflitti di interessi che ruotano intorno alle istituzioni europee. Soprattutto in materia di tecnologie per l’agricoltura industriale, non è affatto raro che i due piatti della bilancia (quello dell’interesse pubblico e quello dell’interesse privato) si trovino in posizione visibilmente asimmetrica. Ancora oggi, nella maggior parte dei consessi tecnici-politici che dovrebbero ispirare le politiche europee, la tendenza a privilegiare l’interesse privato è sempre molto forte. Anzi, troppo.
Carlo Modonesi
Università di Parma
Membro del Comitato Scientifico di Isde Italia