La fine della crescita infinita: Parte 1
È arrivato il nuovo anno, e la crisi economica globale è ancora grave. Ma mentre gli esperti si scontrano sul fatto che il 2015 sia l’anno della ripresa o piuttosto quello di una nuova recessione, nuove ricerche suggeriscono che tutti costoro potrebbero star non vedendo lo scenario nella sua interezza: il perdurare della crisi economica globale potrebbe essere, cioè, il sintomo di una crisi più profonda del rapporto tra la nostra civiltà industriale e la natura.
Lungi dal catastrofismo, alcuni economisti vedono l’attuale fase di stagnazione e austerità come parte di una fondamentale fase di transizione verso una nuova forma di società nella quale potremmo adattarci ai limiti imposti dalla natura e prosperare o, nel negarli, collassare lasciando alla natura ritrovare un suo equilibrio. Così il 2015 annuncia l’alba di una nuova era di prosperità, o il crollo dell’economia globale?
Mentre ci si avvicinava al nuovo anno, alcuni esperti hanno affermato con ottimismo che la più parte dei segnali indica che l’economia sia di nuovo sui giusti binari, mentre altri hanno descritto sorti più tristemente incerte. Di sicuro, con insolita umiltà, molti economisti mainstream hanno ammesso di non avere idea di cosa ci potesse serbare l’anno in arrivo. Justin Wolfers del New York Times ha semplicemente consigliato di: “prepararsi al peggio, sperare per il meglio, e prepararsi ad essere sorpresi.”
Molti, però, sono stati schietti nel mettere in guardia che il peggio debba ancora venire. Ad esempio, David Levy, responsabile della Levy Forecast, fondata nel 1949, e che da decenni ha saputo prevedere tutti i principali rallentamenti degli Stati Uniti, ritiene che quest’anno ci sarà una globale “recessione … peggiore di quella precedente”. Secondo l’economista (indipendente, ndt) Harry Shutt, già consulente per la Banca Mondiale, la Commissione Europea e le Nazioni Unite, “l’inizio inevitabile di una nuova serie di collassi bancari deve ora essere visto come imminente,” con il 2015 che segna l’inizio di “più vasti collassi globali.” Per Shutt, questa non è una mera ripetizione congiunturale di espansioni e recessioni, ma un sintomo del fatto che il vecchio paradigma “basato sul primato del profitto privato è obsoleto” e ci mette in guardia cupamente del fatto che ci troviamo sulla “china di una nuova epoca buia”, mentre i politici continuano a fare affidamento, per affrontare la crisi, sulla “repressione violenta” e su antiquati strumenti economici. Per Shutt, la crisi economica riguarda qualcosa di più che il semplice dato economico, ma trova radice nella stessa spinta predatoria del capitalismo verso la crescita senza fine e verso una conseguente, sempre più estesa, violazione dei limiti ambientali, il che implica che siamo nel mezzo di una inevitabile transizione, non solo verso un altro modello di economia, ma anche verso un diverso modello di civiltà. Potremmo essere sull’orlo di un importante punto di svolta nel modo in cui opera la nostra civiltà?
Il lungo declino
Alcuni sostengono che, proprio mentre l’economia sta andando fuori controllo, stanno germogliando semi di speranza. Anche se le crisi globali accelerano – e questo comprende il rischio di catastrofe climatica, l’instabilità energetica, e molte altre crisi oltre alla crisi economica- una serie di rivoluzioni sistemiche interconnesse sta convergendo in una direzione che potrebbe facilitare una trasformazione positiva dell’economia globale: da un modello che massimizza l’accumulo materiale di pochi, a uno capace di soddisfare le esigenze, e il benessere, di tutti.
Questa è la conclusione di “The Great Transition“, un nuovo e importante libro pubblicato dalla Routledge nella serie di ‘Studi di Economia ecologica’ e scritto dal Prof. Mauro Bonaiuti, economista presso l’Università di Torino, in Italia. Il libro di Bonaiuti applica gli strumenti delle scienze della complessità per capire la reale dinamica, e le implicazioni, di una crisi economica globale che si è fatta improvvisamente evidente a partire dal 2008.
Quella crisi, sostiene Bonaiuti, è il sintomo di un più esteso “passaggio di civiltà”. Le società capitalistiche avanzate, prendendo a raffronto il periodo successivo seconda Guerra Mondiale, sono entrati in una “fase di rendimenti decrescenti” e questo sulla base, tra gli altri, di indicatori quali il tasso di crescita del PIL, l’EROEI (Energy Returns on Energy Invested) delle fonti energetiche, (e cioè quanta energia richiede produrle rispetto a quanto se ne ricava), e l’indice della produttività manifatturiera.
Fig1 – Il grafico di Bonaiuti mostra il tasso di crescita del PIL in Europa 1961-2011, che evidenzia sul lungo periodo, al di là delle fluttuazioni, una consistente diminuzione.
Fig 2. Bonaiuti sottolinea come anche l’EROEI (Energy Return On Energy Invested) sia in declino per i principali combustibili fossili
Considerate questo: rispetto a questi rendimenti decrescenti, nello stesso periodo e su scala globale, abbiamo dovuto affrontare aumenti quasi esponenziali nel consumo di energia, debito pubblico, crescita della popolazione, emissioni di gas serra ed estinzioni di specie.
Per Bonaiuti, i cali nei rendimenti a cui stiamo assistendo sono una conseguenza del “l’interazione tra i limiti di natura biofisica (l’esaurimento delle risorse, il riscaldamento globale, ecc.) e la crescente complessità delle strutture sociali (burocratizzazione, riduzione della capacità di innovazione nei sistemi produttivi, educativi, della salute, ecc.).”
Fig 3. Raffronto tra crescita della popolazione e del consumo energetico globali (Fonte: The Oil Drum)
Fig 4. Aumento globale del debito in rapporto al PIL 2000-2013 (Fonte: The Telegraph)
Fig. 5 Correlazione tra aumento esponenziale dei consumi, emissioni di C02, estinzioni di specie, e degrado ambientale (Fonte: Skeptical Science)
La crisi economica non è quindi solo dovuta al debito, o alla deregolamentazione, o alla volatilità del mercato o a qualsiasi altra ragione di tipo economico. Fondamentalmente, la crisi è legata al fatto l’economia globale sta continuando a infrangere i limiti della biosfera. Ironia della sorte, come sottolinea Bonaiuti, mentre l’accumulazione materiale misurata dal PIL è continuata, oltre una certa soglia, il benessere e la felicità non solo hanno smesso di crescere, ma sono ora in declino e aumentano la depressione e altri disturbi psicologici – un fenomeno che gli economisti tradizionali non riescono a spiegare.
Tutto questo comincia invece a trovare un senso se re-inquadriamo la crisi non come meramente economica, ma come “bio-economica”, cioè una crisi in cui il consumo esponenziale di materia è sempre più destabilizzante per a biosfera. Questo superamento della soglia ambientale (overshoot) spiega “l’impossibilità da parte del sistema capitalistico di continuare a produrre benessere sociale e affrontare con un minimo di efficacia la questione ecologica.” E la ragione per cui l’attuale capitalismo non ha più strumenti validi con cui contrastare la crisi.
Collasso? O rinnovamento! (o entrambi …?)
La nostra civiltà sta così passando attraverso una vasta, epocale ‘fase di transizione’ verso una nuova era, mentre l’attuale capitalismo predatorio globale crolla sotto il peso della propria sempre crescente insostenibilità. Mentre è in corso questo processo si aprono, contemporaneamente, una serie di scenari che propongono nuove forme di società e che fanno intravedere la possibilità di “un grande transizione verso nuove forme istituzionali”, un processo che potrebbe portare con sé anche l’occasione per un più vasto “autogoverno democratico delle comunità e dei loro territori. ”
Nonostante le concrete ‘spaccature’ che questa transizione comporta (l’ondata senza precedenti di disordini globali ne è un importante esempio), molte delle quali analizzate in dettaglio su Motherboard, l’economista italiano è cautamente ottimista sui potenziali risultati a lungo termine di questo processo.
“Quando il paradigma cambia, come ci insegnano le scienze della complessità, nascono nuove forme di organizzazione economica e sociale più adatte alla nuova situazione”, dice Bonaiuti.” In particolare, in un contesto di crisi globale, o anche di crescita stagnante, la cooperazione tra organizzazioni economiche decentrate e a scala più piccola, offre maggiori possibilità di successo. Queste organizzazioni possono portare il sistema verso condizioni di sostenibilità ecologica, maggiore equità sociale e, con il coinvolgimento dei cittadini e dei territori, aumentare anche il livello di democrazia”.
Bonaiuti usa il termine ‘decrescita’ per descrivere questo nuovo paradigma – ma decrescita non vuol dire banalmente nessuna crescita, o addirittura crescita negativa. Fa riferimento invece al nuovo pensiero di un “economia post-crescita” nel quale ci si libera dell’ossessione a considerare l’accumulo materiale come indicatore primario della salute economica.
La crescita infinita è impossibile in un pianeta finito.
Questa prospettiva riconosce che la crescita illimitata è semplicemente impossibile dal punto di vista biofisico, è una letterale violazione di una delle leggi fondamentali della fisica: l’inevitabile degradazione dell’energia sancita dalla legge di entropia.
Se Bonaiuti ha ragione, allora dobbiamo aspettarci di vedere sempre più segni di questa transizione, e con essa, l’emergere di possibili nuove forme di organizzazione economica e sociale che funzioneranno molto meglio del vecchio paradigma industriale che ancora diamo per scontato.
E questo è esattamente ciò che sta accadendo.
Nella seconda parte di questo articolo, analizzerò le cinque grandi “rivoluzioni” che si stanno già sviluppando, che stanno già minando il vecchio paradigma e spianando la strada per le possibili, valide alternativa che si avvicinano: la rivoluzione informatica, la rivoluzione energetica, la rivoluzione alimentare, la rivoluzione della finanza e la rivoluzione etica.
I grandi cambiamenti portati da queste rivoluzioni si stanno sviluppando qui e là, per tentativi, in modo spesso incoerente – ma, nonostante ciò, inesorabilmente, e nei prossimi anni il sistema avrà sempre più difficoltà a contenerli e a cooptarli.
Tutte queste rivoluzioni comportano una sempre maggiore ‘dispersione’ del potere tra le persone e nelle comunità, e si allontanano sempre più dalle tradizionali gerarchie centralizzate di controllo. Man mano che queste nuove forme si rafforzano e cominceranno ad interagire, le opportunità di transizione aumenteranno.
Ciò non significa che tutto questo accadrà facilmente, e senza pericoli. Bonaiuti individua quattro possibili scenari per il futuro, e uno di questi si risolve nel ‘collasso’- un’immagine che in qualche modo si spiega da sola. Coloro che più beneficiano del vecchio paradigma, saranno gli stessi che più cercheranno di resistere, e per quanto più possibile. Quasi letteralmente, il futuro della nostra specie, e del pianeta, sarà deciso dal modo, del tutto imprevedibile, in cui le persone di ogni luogo sapranno rispondere alla realtà del cambiamento, se lo faranno con la resistenza, la disillusione, l’apatia, o l’impegno, l’adattamento e l’azione.
Quindi benvenuto al 2015: un anno in cui le nostre scelte possono determinare il futuro del pianeta.
La fine della crescita infinita: Parte 2
Siete preoccupati per il cambiamento climatico e per il fatto che l’insieme delle crisi sta facendo salire la merda fino a toccare il ventilatore? Bene. Perché queste crisi ci offrono un’opportunità senza precedenti di cambiare il mondo.
Nella prima parte di questo articolo ho parlato del lavoro pionieristico che l’economista dell’Università di Torino Mauro Bonaiuti ha compiuto sulle connessioni più profonde che la crisi in corso del capitalismo ha con la più ampia crisi ambientale. Il modello della crescita infinita che diamo per scontato sta sempre più superando i limiti naturali ed ambientali della Biosfera, con conseguenze devastanti.
Eppure Bonaiuti non è una voce solitaria. Rappresenta un movimento in espansione di economisti e scienziati che stanno affermando che, se vogliamo salvare il pianeta salvando la prosperità occorre ripensare il capitalismo per come lo conosciamo ora. Lo pseudo dibattito sulla questione se il 2015 porterà recessione o ripresa trascura il quadro complessivo: la crisi economica globale è semplicemente una aspetto del lungo declino di un paradigma che ha perso la sua utilità.
Ben lontana dall’essere solo cupa e tenebrosa, la continua crisi economica globale è sintomo di un passaggio fondamentale nella natura stessa della civiltà. La nuova era della crescita lenta e dell’austerità è iniziata perché la biosfera ci sta costringendo ad adattarci alle conseguenze dell’aver superato i limiti ambientali.
Questo passaggio fondamentale comporta cambiamenti significativi, che offrono grandi opportunità per una trasformazione sistemica che porterebbe benefici all’umanità e al pianeta. Sono le cinque rivoluzioni interconnesse di informazione, cibo, energia, finanza ed etica che possono consentire alle comunità di trovare insieme nuovi modi di essere che siano adeguati per tutti. Quest’anno potremmo scoprire che la disgregazione del capitalismo è il segno del superamento del punto di non ritorno nella transizione ad un nuovo paradigma postindustriale e post-capitalista.
La rivoluzione dell’informazione
Attualmente il mondo è, piuttosto chiaramente, all’inizio di una vastissima rivoluzione tecnologica nell’informazione che ha già, nel giro di pochi anni, trasformato il modo in cui facciamo le cose e innescato cambiamenti che perdureranno nei prossimi decenni. Una descrizione di alcuni di questi cambiamenti e la possibilità di utilizzarli come armi, si può trovare nel mio articolo sui “progetti per la riforma della difesa” del Pentagono. L’impatto principale della rivoluzione dell’informazione è stata finora la decentralizzazione dell’infrastruttura comunicativa mondiale, l’aumento dell’interconnessione di diversi paesi e comunità e, di conseguenza, l’apertura di una miriade di fonti di informazione al pubblico, spesso gratuite.
Naturalmente, questo non è il villaggio globale. L’accesso ad internet rimane largamente diseguale fra ricchi e poveri e nuovi fronti di conflitto sono stati delineati – questo è dimostrato dall’impunità per la sorveglianza di massa compiuta delle agenzie di intelligence in combutta con le multinazionali, così come dagli sforzi che stanno facendo i giganti delle telecomunicazioni e i governi per trovare modi di controllare e censurare internet.
Ma questa è una reazione ampiamente regressiva all’aumento dell’incapacità di controllare le dinamiche intrinsecamente incontrollabili e decentralizzate della rivoluzione dell’informazione. Ora sappiamo che le agenzie di intelligence si stanno dando da fare alla meglio per controllare tutto quello che possono dopo che è diventato chiaro che i social media sono un attivatore di messaggi politici radicali e, quindi, un amplificatore per i movimenti sociali capace di rendere più facile il ribaltamento di quei regimi militarmente repressivi che sono stati i nostri alleati più stretti (che ne dite dell’Egitto?).
Analogamente, il tentativo di chiudere Pirate Bay si è dimostato futile. Nel momento in cui è stata introdotta la legge per uccidere il sito, anziché sparire, sono proliferate centinaia di siti specchio di Pirate Bay così da dimostrare la letterale inutilità persino del fatto di eliminare il portale di punta del sito pirata. Il raid più recente sui server di Pirate Bay in Svezia ha avuto come risultato il lancio immediato di un sito “clone” di Pirate Bay da parte del concorrente Isohunt. Nel 2012, il sito era diventato più facile da spostare e clonare. Ora Bruno Kramm, il presidente del berlinese partito Pirata, fondato dopo la chiusura nel 2005 dell’originale Pirate Bay per la promozione della condivisione di informazioni online, ha promesso che il sito riaprirà semplicemente moltiplicando i server. “Fondamentalmente, ogni volta che si chiude Pirate Bay, noi lo moltiplicheremo”, ha detto.
È questa libertà di informazione che, riducendo i costi e migliorando l’accessibilità, si sta anche mangiando i tradizionali modelli di mercato dei media televisivi e della carta stampata.
Quei modelli sono morti che camminano. I membri della nuova generazione non leggono i giornali e non guardano i notiziari in TV. Ottengono le informazioni da spettacoli su YouTube, selezionano le proprie notizie incrociandole da media mainstream e fonti digitali alternative, mentre condividono e comunicano le notizie attraverso social networks come Facebook, Twitter, Instagram, WhatsApp, Snapchat, Vine, Tumblr e così via. E questa è una delle ragioni fondamentale per cui il modello di mercato convenzionale dei media mainstream sta attraversando un rapido declino.
Nonostante le sue trappole, la rivoluzione dell’informazione ha così aperto opportunità prima impensabili per i media alternativi, accessibilità di informazione e interconnessioni fra persone diverse, comunità, movimenti sociali e nazioni. Da qui deriva la rapida proliferazione dell’ultimo decennio di siti e fonti alternative di informazione come blog, piattaforme comunitarie di notizie e modelli di giornalismo digitale sostenuti dai lettori.
Ciò sta già minando la rilevanza dei grandi canali centralizzati d’informazione e sta creando spazio per l’impegno pubblico e per nuovi modelli di media digitali, in un processo che può solo accelerare e che diventerà inarrestabile man mano che gli strumenti di crittografia diventeranno più economici e diffusi.
La rivoluzione energetica
Come ho mostrato altrove, il sistema dei combustibili fossili è già in agonia. I costi di produzione di petrolio, gas e carbone sono schizzati in alto e il mercato non si può semplicemente permettere di pagare prezzi alti abbastanza da far sì che le grandi major dei combustibili fossili mantengano profitti in crescita.
Mark Lewis, ex capo della ricerca sull’energia della Deutsche Bank, evidenzia che l’industria sta investendo “a tassi esponenzialmente più alti per rendimenti incrementali di energia sempre più bassi”. Quest’anno, la statunitense EIA ha scoperto che in conseguenza di questo passaggio all’energia costosa, le principali società mondiali di petrolio e gas stavano sprofondando in una trappola del debito persino prima dell’ultimo collasso del prezzo del petrolio. Il loro debito netto è aumentato di 106 miliardi di dollari nell’anno fino a marzo, mentre hanno venduto 73 miliardi di dollari di titoli per coprire i costi di produzione in aumento. “Sta suonando l’allarme. Gli investitori cominciano a chiedersi se non sarebbe meglio restituire il contante agli azionisti e decapitalizzare le società”.
Mentre l’impero dei combustibili fossili va in frantumi, al contrario, il costo delle tecnologie energetiche rinnovabili (specialmente solare ed eolico) sta crollando proprio mentre l’efficienza sta rapidamente aumentando. Tony Seba, imprenditore della Silicon Valley e insegnante di economia a Stanford, prevede che solare diventi dominante entro soli 15 anni, l’EROEI del solare, infatti, è di gran lunga superiore, sul lungo termine, di quello dei combustibili fossili.
Seba mi ha detto che i calcoli convenzionali dell’EROEI sono potenzialmente fuorvianti, perché ignorano alcuni costi cruciali ed esternalità, specialmente nell’uso di terra ed acqua, rifiuti ed inquinamento delle fonti tradizionali. Applicando il concetto di Tempo di Rientro Energetico (TRE) ai pannelli solari fotovoltaici (FV) – dove il TRE equivale a quanto tempo ci vuole per produrre la stessa quantità di energia che è stata usata per creare ed installare i pannelli – Seba afferma che le recenti tecnologie a film sottile ripagheranno quell’energia in appena un anno circa. Da quel momento in poi, di fatto, l’energia viene generata gratuitamente. Se un pannello a film sottile produce energia per 25 anni, allora il suo EROEI è 25. “È molto di più dei risultati resi pubblici per la maggior parte delle attuali forme di energia compresi petrolio, gas, carbone e nucleare”, ha detto Seba.
Ma Seba ha anche indicato che è probabile che i pannelli FV durino molti decenni oltre i 25 anni. La prestazione dei pannelli degrada di circa lo 0,5% all’anno, il che significa che anche dopo 60 anni produrrebbero al 70% della propria capacità. L’EROEI sarebbe pertanto nell’ordine di 50 o 60. Dato che si prevede i costi del FV possano scendere di altri due terzi circa entro il 2020 , ciò suggerisce che, per allora, l’EROEI del solare potrà essere anche maggiore, potenzialmente di 150. E mentre l’efficienza e la capacità della tecnologia del FV continuano a migliorare (ad un tasso di circa il 22% ogni 2-3 anni), l’EROEI della tecnologia FV è lanciato verso il raggiungimento della tripla cifra e verso un miglioramento esponenzialmente, piuttosto che un degrado.
I combustibili fossili non possono semplicemente competere con questo andamento. Mentre i costi continuano a diminuire, le imprese e le comunità stanno già passando rapidamente al solare, meno costoso e decentralizzato, dove l’energia post-TRE è letteralmente gratis. Se abbiniamo questo ai prezzi in diminuzione di soluzioni di stoccaggio in rapida emersione, il vecchio modello di dipendenza da petrolio, gas e carbone costosi, centralizzati e sporchi sarà sempre più soppiantato dall’impeto inarrestabile dell’energia economica, distribuita e pulita.
La rivoluzione del cibo
Mentre ci disintossichiamo dai combustibili fossili, un’attività tra le più energeticamente intensive e matura per la transizione è l’agricoltura industriale. Nei soli Stati Uniti, il 19% del consumo di combustibili fossili va al sistema alimentare per pesticidi, fertilizzanti, macchinari, elaborazione, confezionamento e trasporto. Ma mentre l’agricoltura industriale continua a degradare il suolo, la produttività della terra nelle regioni chiave per il cibo sta costantemente declinando.
In questo contesto, con i prezzi globali del cibo a livelli record, con la pressione delle condizioni meteorologiche estreme dovute al cambiamento climatico, la volatilità dei prezzi del petrolio e la speculazione degli investitori, la spinta a sviluppare una maggiore resilienza nell’accessibilità alla produzione di cibo locale sta a sua volta crescendo.
Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, ad esempio, la domanda di cibo coltivato localmente sta aumentando rapidamente. Il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense riporta che fra il 1992 e il 2007 la domanda di prodotti locali è cresciuta il doppio più rapidamente del totale delle vendite agricole e il numero di negozi di cibo locale è quadruplicato dal 1994 al 2013.
Le iniziative di transizione in tutto il mondo occidentale stanno mostrando la strada ai tentativi delle comunità di coltivare il proprio cibo in modo biologico e al di fuori del sistema alimentare industriale. Studi preliminari mostrano che la rilocalizzazione delle economie alimentari è un’opzione praticabile, che potrebbe avere benefici enormi per le economie locali, creare una vasta gamma di posti di lavoro – anche se questa tendenza comporta meno consumo di carne, e significare un numero maggiore di persone che vive e lavora sulla terra.
Recentemente, la FAO ha esplorato il potenziale di aumento di scala dell’agroecologia — un metodo specializzato di agricoltura che unisce l’agricoltura biologica a una struttura sociale, economica e politica ecologicamente consapevole. Dopo questo studio i relatori dell’ONU per il diritto al cibo, attingendo ad una ricca letterature peer-reviewed, hanno proposto l’agroecologia come una soluzione praticabile per aumentare i rendimenti delle colture dei piccoli agricoltori, colture che forniscono il 70% della produzione globale di cibo.
Una tesi di Master su Ambiente e Pianificazione compiuta quest’anno da Zainil Zainuddin, un ricercatore su cibo ed agricoltura all’Università RMIT di Melbourne, in Australia, mostra i risultati di uno studio su 15 famiglie che fanno agricoltura urbana in un terreno di 1,096 metri quadri collettivo a Melbourne città. Undici delle famiglie partecipanti hanno coltivato usando i principi di progettazione della Permacultura, comprese la non aratura, l’allestimento di bancali per la coltivazione, l’uso di compost e/o la diffusione di lombrichi per il miglioramento del suolo (e l’uso di letame animale per coloro che sono impegnati nell’allevamento di pollame e uccelli), consociazioni di piante per la gestione dei parassiti e raccolta delle acque piovane. In un anno, il progetto ha reso in totale 388,73 kg di frutta, verdura, noci, miele e carne, insieme a 1015 uova. Lo studio ha scoperto che “tutti i partecipanti registrano un surplus fra il 5 e il 75%, a seconda della coltura e delle stagioni”, che è stato condiviso con le famiglie vicine e le comunità locali” attraverso le reti di scambio e condivisione.
Nei prossimi anni, sempre più cibo sarà prodotto e consumato localmente sia in ambienti urbani sia in ambienti rurali, man mano che il sistema alimentare industriale diventa più insostenibile e costoso. Casi reali come Park 2020 in Olanda mostrano che con giusti principi di progettazione e usata per sostenere un sistema alimentare di comunità e di imprese locali basate su “cicli chiusi di materiali, energia, rifiuti ed acqua”, l’agricoltura urbana su larga scala rappresenta un futuro possibile in cui convertire le città moderne percorsi di ecologia rigenerativa.
La rivoluzione della finanza
Le rivoluzioni di informazione, cibo ed energia vengono facilitate da una fiorente rivoluzione della finanza. Ancora una volta la tendenza emergente è quella di nuovi modelli che danno un maggiore potere alle persone e minano l’autorità e la legittimità – e persino la necessità – della tradizionale infrastruttura bancaria centralizzata.
Questo è reso possibile dalla rivoluzione dell’informazione. Secondo la società di ricerche Forrester, specializzata nel mercato della tecnologia, la valanga di nuovi meccanismi per potenziali prestatori e mutuatari, o finanziatori e finanziati, e per interagire online senza l’intermediazione delle banche tradizionali e delle istituzioni finanziarie, crea un’enorme minaccia alle banche convenzionali. Fra questi sistemi, il prestito peer2peer ha visto una crescita particolarmente rapida.
Il nuovo rapporto della Forrester Research mostra che dal 2005 sono stati generati oltre 6 miliardi di dollari in prestiti. Anche se il peer2peer rimane piccolo nel contesto dei ben più grandi bilanci delle banche, la Forrester prevede che la tendenza a lungo termine va a favore del fatto che queste nuove forme di prestito sociale – comprese la gestione digitale dell’investimento e il crowdfunding – “continuino a crescere, intacchino i profitti delle banche, attirino risparmi e eliminino l’intermediazione delle banche”.
Come ha recentemente osservato la Australian Business Review, “le banche sono state portate sull’orlo dell’abisso” mentre “le imprese dei media, dei trasporti postali e della musica” stanno già sul punto di crollare”. Questi nuovi meccanismi di prestito sociale (social lending) e finanza alternativa “spezzeranno le attività bancarie riportandole alle proprie parti costitutive, ciascuna con il proprio distruttore”.
Ciò ha anche aperto la strada a nuove monete digitali e nuovi sistemi di investimento digitali, che molti prevedono distruggeranno miliardi di dollari all’anno di attività bancarie, specialmente nei mercati meno sviluppati dove le infrastrutture bancarie non sono ben insediate. Se il Bitcoin è certamente la più nota e reclamizzata, altre promettono una maggiore stabilità, trasparenza e affidabilità pubblica, come MaxCoin e StartCoin.
Secondo Walter Isaacson, Amministratore Delegato dell’Aspen Institute ed ex presidente della CNN, “è probabile che valute digitali e i micropagamenti siano le innovazioni dirompenti del 2015”.
Uno degli sviluppi potenzialmente più significativi sta nel concetto e nella pratica della “economia circolare”, che si concentra sulla necessità di riciclare le risorse presenti in un sistema economico, piuttosto che generare semplicemente quantità sempre maggiori di rifiuti in nome della crescita infinita. Un importante rapporto al Club di Roma di Ugo Bardi, del Dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Firenze, ha mostrato che riciclo, conservazione ed efficienza nella gestione delle risorse minerarie del pianeta potrebbe favorire una società prospera e ad alta tecnologia, anche se ciò significherebbe smettere di indugiare nel tipo di consumismo di massa che diamo per scontato oggi.
Le multinazionali sono le prime nell’esplorare l’economia circolare per pure ragioni di business. I costi delle risorse sono schizzati dal 2009 più rapidamente della produzione economica globale. Un rapporto pubblicato all’inizio dell’anno dalla società di consulenza finanziaria McKinsey ha osservato che le imprese sono state forzate a trovare “nuovi modi per riusare i prodotti e i componenti” nel gestire l’accesso a “risorse naturali preziose”. Il relativo successo di questi sforzi ha portato società come Renault ad immaginare la possibilità di un sistema industriale che sia rigenerativo dalla progettazione”, e che “ricicla gli input di materiali, energia e lavoro”.
McKinsey evidenzia che, nell’era dell’energia costosa, sono enormi gli incentivi a passare all’economia circolare. I soli risparmi di materiali potrebbero superare 1 trilione di dollari all’anno entro il 2025. Mentre i settori aziendali e commerciali vedono l’economia circolare come un mezzo necessario per sostenere la crescita in una nuova era di scarsità di risorse, Bardi evidenzia che la crescita materiale infinita è semplicemente impossibile. L’ascesa dell’economia circolare condotta da alcune delle più grandi società del mondo rappresenta un passaggio involontario ma accelerato ad un sistema economico post-crescita.
La rivoluzione etica
Forse il cambiamento più profondo di tutti, implicito in queste rivoluzioni apparentemente eterogenee ma intrinsecamente interconnesse, è la rivoluzione etica.
Il vecchio paradigma, che sta affrontando sempre più perturbazioni da parte delle rivoluzioni emergenti descritte sopra, è basato su un modello di controllo centralizzato e gerarchico concentrato sull’accumulo materiale illimitato e su valori di individualismo, interesse personale, competizione e conflitto.
Il modello che si sta rapidamente sviluppando e distruggendo il paradigma dall’interno, è un modello basato sull’accesso libero all’informazione, sull’energia pulita distribuita ed effettivamente libera, sulla proprietà locale, comunitaria e democratica delle risorse planetarie e una forma di prosperità e benessere finalmente disaccoppiata dall’imperativo dell’accumulo materiale infinito.
Il vecchio e il nuovo paradigma possono essere chiaramente collegati a due sistemi di valori molto diversi. Il primo paradigma, che è attualmente in declino, è quello dell’egoismo, del gretto materialismo e del consumismo egoistico. È un sistema di valori che, come sappiamo ormai per merito delle nostre migliori menti scientifiche, ci sta portando potenzialmente verso un pianeta inabitabile e quindi persino all’estinzione della specie (con molti scienziati che sostengono che siamo all’inizio del sesta estinzione di massa del pianeta). Ciò suggerisce che questo sistema di valori è di fatto scollegato dalla natura umana, dal nostro ambiente biofisico e dalla relazione fra questi.
Al contrario, il sistema di valori associato al paradigma emergente è anche massimamente commisurato a ciò che gran parte di noi riconosce come “buono”: amore, giustizia, compassione, generosità. Questo comporta il concetto rivoluzionario secondo cui l’etica, spesso vista come ‘soggettiva’, ha di fatto ha una funzione perfettamente oggettiva ed utilitaristica nell’obiettivo evolutivo fondamentale della sopravvivenza della specie. In un certo senso, l’etica ci fornisce un riferimento basato su valori per riconoscere gli errori del vecchio paradigma e ci fa intravvedere l’opportunità di migliori modelli sociali.
Questa rivoluzione etica è infine radicata nella nostra comprensione scientifica della vita e del mondo, e si sposta dal vecchio paradigma newtoniano/cartesiano al nuovo paradigma rappresentato dalla relatività, dalla fisica quantistica dalla biologia evolutiva e dall’epigenetica. Questo cambiamento ha da un lato portato alla luce curiosi paralleli fra il misticismo orientale e la scienza occidentale di cui si sono occupati i fondatori stessi della meccanica quantistica e dall’altro ha sottolineato concetti come ‘nonlocalità’ e interconnessioni quantistiche, l’intrinseca relazione fra osservatore e osservato e la complessa irriducibilità delle interazioni mente-corpo. Questi punti di vista sono parte di una visione del mondo scientifica emergente secondo cui gli esseri umani sono intimamente interconnessi col proprio ambiente biofisico e in cui i valori etici ci forniscono pertanto, in qualche modo, un mezzo per affrontare oggettivamente questa relazione nelle nostre scelte morali quotidiane, a prescindere dai dogmi religiosi.
Mentre le 5 rivoluzioni accelerano e distruggono il vecchio paradigma, come stanno già facendo – e avendo come risultato un crescente aumento dei movimenti sociali che sfidano e rovesciano stati e sistemi – la fase di passaggio ad una nuova era a sua volta accelera. Le doglie del parto di questa nuova nascono dalla sempre crescente distruzione del vecchio paradigma, un processo che richiama caos, incertezza e violenza. Eppure è esattamente nelle ceneri di questa grande distruzione che aumentano le opportunità che le 5 rivoluzioni prendano il volo.
“Crescita” e “sviluppo” non sono sinonimi. Pertanto, è urgente recuperare l’equilibrio nella scelta delle risorse che evitino l’identificazione di “ben-essere” con “molto-avere”.
E’ questa la ragione principale che assegna priorità alla rivoluzione “etica”.
Ma, perché ci sia rivoluzione, necessita che ci siano persone che la vogliono. Senza maturazione e diffusione di nuova etica (della condivisione, del dono, dell’accoglienza) tutte le altre “facili” rivoluzioni favoriranno soltanto nuovi protagonismi, diversi da quelli proposti dal “capitalismo”, ma non meno deleteri per le persone che aspirino alla propria dignità mediante la coscienza-conoscenza del mondo del quale sono partecipi e promotori.
Ogni nuova rivoluzione sceglie le risorse con le quali può meglio alimentarsi: la risorsa principale della nuova “società cognitiva” è costituita dai segni d’arte che rendono “storici” tutti i territori umanizzati.