Perché una rivista italiana dedicata alla decrescita?
Il progetto di una società della decrescita ambisce ad abbracciare tutte le teorie e le pratiche di fuoriuscita dai paradigmi dell’Antropocene che hanno creato le crisi ecologiche, sociali e di civiltà che stiamo vivendo. La posta in gioco è grande. La sfida alla centralità della crescita è in continuo sviluppo sia in ambito accademico – grazie ad un filone di ricerca sulla decrescita sempre più interdisciplinare – sia nella società. Questa rivista intende diventare uno spazio di ascolto e di confronto aperto e fattuale a disposizione dei soggetti del cambiamento: obiettori della crescita, eco-pacifisti, attivisti nonviolenti, uomini e donne di buona volontà.
L’impostazione
Le crisi sindemiche del sistema mondo globalizzato richiedono soluzioni radicali, oltre che urgenti. Su tutti i versanti. Senza le quali è facile prevedere che la crisi ecologica finirà in catastrofi, la crisi economica in collassi socio-politici, le crisi geopolitiche in stato di guerra permanente e senza confini.
Vorremmo sbagliare diagnosi, ma, con ogni evidenza, da 50 anni tutti gli indicatori volgono al peggio. Non è affatto esagerato chiamare biocidio l’estinzione di massa delle specie viventi, ecocidio la distruzione degli habitat e dei cicli biogeofisici capaci di rigenerare la vita, genocidio il respingimento nella miseria delle popolazioni più emarginate del pianeta.
Far cambiare rotta ad un pesante convoglio – per di più rimasto senza carburante – non è impresa facile. Non basta nemmeno cambiare i timonieri. Prima di tutto serve una nuova cartografia mentale. Bisogna sapere almeno in quale direzione occorre mettersi in viaggio. E per questo occorre ampliare lo sguardo.
Quasi vent’anni fa Fredric Jameson coglieva il segno quando commentava che «oggi per noi appare più facile immaginare il deterioramento in corso della terra e della natura che il crollo del tardo capitalismo» e osservava che questa difficoltà forse era dovuta a qualche debolezza nella nostra capacità di immaginazione.
Concordiamo con Vandana Shiva, d’altra parte, quando sottolinea come «la principale minaccia alla diversità deriva dall’abitudine a pensare in termini di monocolture, quelle che io chiamo “monocolture della mente”. Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversità e insieme la diversità stessa. La scomparsa della diversità fa scomparire le alternative e crea la sindrome della “mancanza di alternative”».
A noi sembra che l’idea di una società della decrescita possa fornire un punto di riferimento teorico e pratico, utile ad una azione di superamento del sistema socioeconomico e ideologico dominante. Ma occorre far incontrare e dialogare questa prospettiva con altre parole, linguaggi e visioni che possono venire da esperienze di donne e uomini di ogni parte del mondo, per aiutarci ad arricchire di significati, valori e passioni il nostro cammino. La posta in gioco è grande. Come diceva Castoriadis «occorre una nuova creazione immaginaria di proporzioni senza eguali nel passato». È chiaro, infatti, che per disporsi a cambiare e rinunciare alle mortifere comodità e sicurezze a cui ci siamo abituati, occorre che la fiducia in una possibilità di vita più umana e più degna si mostri più forte delle sirene del consumismo e anche dell’angoscia dell’ignoto. Vogliamo impegnarci dunque, con tutte le nostre forze, a nutrire e a tener vivo con idee, storie e visioni questo sentimento di fiducia.
Il metodo
Conoscere e approfondire, osservare e ascoltare le realtà concrete per riuscire a modificarle, per motivare i processi di cambiamento e innescare l’iniziativa sociale. Pensiamo alla rivista come ad uno spazio aperto di ricerca e di inchiesta, da svolgere con metodi rigorosi, ma – proprio per questa ragione – mai avulsi dalla realtà viva e vissuta da ogni essere vivente. Proponiamo una rivista che si interroghi sul “che fare”; qui ed ora.
Non ci interessano in questa sede le speculazioni filosofiche astratte, fine a se stesse, né crediamo che esista una scienza autonoma dalla storia umana, oggettivante e assolutizzante, che si autoproclama legge naturale e che da questa convinzione fa discendere giudizi e comportamenti morali da imporre agli esseri umani.
Come scriveva Pasolini: «L’urgenza dell’agire non esclude, anzi, richiede d’urgenza di capire». Ecco perché sentiamo il bisogno di uno spazio di confronto che permetta un dialogo fruttuoso tra gli impliciti teorici delle pratiche sociali e politiche e le ricadute e gli effetti concreti delle analisi teoriche. Superando ogni dualismo “cartesiano” tra ragioni ed emozioni, tra saperi specialistici e contestuali. Insomma, ci vorremmo ispirare al celebre aforisma «La pratica senza teoria è cieca, ma la teoria senza pratica è muta».
I contenuti
A noi sembra di capire che il progetto di capitalismo totale messo in essere dalle sempre più potenti e incontrastate conglomerazioni transnazionali industriali e finanziarie (nella versione 4.0 della megamacchina tecnoindustriale che combina ingegneria biomolecolare e robotica, geoingegneria ed editing genetico, machine learning e visori Metaverso…) abbia lacerato la connessione storica tra economia di mercato e democrazia liberale. Nel concreto si sono esauriti i margini a disposizione del tradizionale riformismo keynesiano per imbrigliare a buon fine le traiettorie disegnate dal “business as usual”.
Senza mettere in discussione le logiche portanti del progetto di sviluppo della modernità capitalista non sembra esserci via di scampo.
La rivista dovrà quindi usare un registro critico capace di spaziare in tutte le direzioni, poiché in un contesto ideologico ed economico dominato dal market system tutte le conoscenze vengono veicolate dalle tecnologie e indirizzate a potenziare il potere di comando, di sorveglianza, di sfruttamento dei “fattori” produttivi umani e naturali e sono destinate a moltiplicare i fattori di rischio ecosistemici e sociali.
Il linguaggio
Se la rivista dovrà essere uno strumento di lavoro – una cassetta degli attrezzi a disposizione dei soggetti del cambiamento – allora dovrà essere chiara e comprensibile. Occorrerà che autori e collaboratori facciano un grande sforzo in questa direzione, che non significa banalizzare i concetti, ridurre le complessità, entrare nel sotto-genere “divulgativo”, ma riuscire ad essere completi, dialogici e concreti nelle esposizioni.