Di Paolo Cacciari. Pubblicato anche su comune-info.net. Ricordiamo che a questo tema sono già stati dedicati altri articoli sul nostro sito, nonché l’ultimo numero dei Quaderni della decrescita. Ne aveva d’altronde già parlato anche Serge Latouche sin dal 2013.

Ad aprire crepe nel dominio della tecnocrazia sostenuta da enormi risorse finanziarie negli ultimi anni c’è un pensiero radicale di ecologia politica, costruito intorno a un’idea di società dei produttori che operano in cooperazione tra loro e in unione con la natura. Le tante e diverse esperienze di condivisione dei commons, cioè dei beni che le persone decidono di gestire collettivamente, indicano una strada, come racconta anche l’ultimo testo – di grande interesse e successo – di Saitō Kōhei.

Le relazioni tra “rossi” e “verdi” non sono mai state idilliche. Nonostante vari tentativi di giustapposizione delle istanze sociali ed ecologiche in chiave di alleanze contingenti o elettorali fino ad ora è prevalsa l’opinione che vi sia una inconciliabilità persino ontologica tra due corpi teorici e due modalità operative pratiche che rimangono e insuperabili. È noto che le formazioni green preferiscono collocarsi oltre l’assiologia destra/sinistra, mentre per la cultura politica che trova le sue radici nei movimenti operai, socialisti e comunisti le discriminanti con i partiti conservatori fanno parte della propria identità. Gli uni e gli altri si accusano reciprocamente. I marxisti visti dagli ambientalisti sarebbero prigionieri del paradigma economicista, produttivista, utilitaristico, prometeico… secondo cui lo sviluppo delle forze produttive costituirebbe una sorta di precondizione per liberare l’umanità dal “regno delle necessità” e poter aspirare al “regno delle libertà”. Per contro, negli ambientalisti prevarrebbe una dimensione ideale, romantica, spiritualista… perdendo di vista le asimmetrie di potere storicamente determinate tra le classi sociali, i luoghi, le etnie, i generi.

Tali divaricazioni sono un vero peccato per le fortune di entrambi, poiché al fondo gli autentici “rossi” e “verdi” aspirano ambedue ad una trasformazione profonda della società esistente. Tutti e due vedono nelle disuguaglianze sociali e nella devastazione degli ecosistemi il portato di una logica e di un modello di sviluppo insostenibile e intollerabile. Sostenibilità ecologica e uguaglianza sostanziale sono due facce della stessa medaglia. Un socialismo che non realizzi un equilibrio armonico tra attività antropiche e cicli naturali non porterebbe affatto a una società più felice, così come un ambientalismo senza giustizia sociale – per parafrasare una citazione abusata di Chico Mendez – sarebbe solo “giardinaggio”. Così, fino ad oggi, gli uni e gli altri hanno continuato ad usare pratiche politiche che si sono sovrapposte su piani diversi, con poca capacità di incidenza. La lotta sul terreno economico e dei diritti, da una parte, la presa di coscienza culturale individuale e stili di vita solidali e sobri, dall’altra.

Da qualche tempo, però, le cose stanno cambiando, almeno sul versante della sinistra. Sicuramente sulla spinta dei movimenti giovanili contro il cambiamento climatico ispirati da Greta Thunberg, sta prendendo piede – almeno nei paesi dell’ex Primo mondo – un pensiero radicale di ecologia politica che si ispira all’ecosocialismo. Pensiamo alla rilettura dei testi di ecologia politica di André Gorz, James O’Connor, Murray Bookchin, David Harvey e, più recentemente, di John Bellamy Foster, Paul Burkett, Jason Moore. A conferma della tendenza in atto, esplode ora il fenomeno editoriale Saitō Kōhei. Due libri bestseller internazionali, già pubblicati in Italia, e un terzo in arrivo: Il capitale nell’antropocene, Einaudi, 2024; L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi (2017) 2023; Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023.

Il giovane trentanovenne filosofo giapponese – già insignito di premi per il suo contributo all’edizione delle opere complete di Marx ed Engels, Gesamatausgabe (MEGA2) – riscopre, con dovizia di documentazione inedita e con la freschezza di una interpretazione originale, un filone ecologico di Marx. Verrebbe così smentita ab origine la critica finora prevalente a un Marx tanto affascinato dalle progressive e meravigliose capacità del capitalismo da dimenticare i danni inferti alla natura dalla megamacchina termoindustriale. Saito mette in luce un Marx appassionato di studi scientifici naturalistici che gli permettono di approfondire ed espandere la teoria, già esposta nel primo libro del Capitale, della «frattura del nesso tra il ricambio organico sociale e quello prescritto dalle leggi naturali della terra». Una «rottura metabolica» tra uomo e natura insanabile provocata dal sistema capitalistico che, oltrepassato un certo limite, nell’incessante competizione per il profitto, produce effetti controproduttivi. Oggi diremo: spezza i cicli rigenerativi della vita, sfonda i “confini planetari” all’interno dei quali il genere umano è riuscito ad avere una vita relativamente sicura. Scrive Saitō: «il capitalismo trasforma l’uomo e la natura in bersagli da saccheggiare» rendendo la Terra un luogo inabitabile.

Restituito a Marx tutto ciò che di ecologico è di Marx, il nostro autore propone anche una reinterpretazione dell’idea di comunismo in modo tale da renderlo non solo compatibile, ma necessario alla realizzazione di una società ecologica. Un’idea di “società dei produttori associati” che operano in cooperazione tra loro e in unione con la natura. Un comunismo «comunitario», mutuale che mira a dare risposte ai bisogni essenziale delle persone. «Non siamo poveri perché non produciamo abbastanza – afferma Saitō – ma perché il capitalismo fa della scarsità la propria essenza» privilegiando il valore di scambio nei confronti del valore d’uso reale dei beni e dei servizi che vengono immessi sul mercato. Uguaglianza e prosperità (la ricchezza comune) si realizzano attraverso il riconoscimento e la condivisione dei commons, ovvero, dei beni che le persone decidono di gestire collettivamente, in maniera autonoma.

Seguendo il ragionare di Saito, la conclusione viene facile: la interazione tra istanze sociali ed ecologiche avviene nel punto più alto e radicale possibile delle rispettive elaborazioni teoriche e pratiche “rosse” e “verdi”, accostando due tra le parole più conturbanti oggi immaginabili: il comunismo e la decrescita. Il successo dei lavori di Saito, specie tra le e i giovani, dipende forse dal fatto che molti degli antichi sbarramenti ideologici posti a difesa dell’esistente non reggono più a fronte dei fallimenti dello “sviluppo sostenibile”, della “crescita verde” che “non lascia indietro nessuno”, delle imprese certificate ESG, ecc. ecc. Il manifesto de «Il comunismo della decrescita» è una sfida all’autoinganno.

Foto: La cargo-bike prodotta dagli operai del Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze, senza stipendio e in autogestione da diversi mesi. Courtesy comune-info.net