Traduzione di Francesco Zevio del Gruppo Internazionale di https://lessoulevementsdelaterre.org/fr-fr/blog/mouvement-agricole-communique-soulevements . Per altri dettagli sulla situazione in Italia, consigliamo questo breve articolo di Luca Martinelli su Altreconomia I trattori in strada raccontano la fine di un modello agricolo
Posizione e appello dei Sollevamenti della terra sui moti contadini in corso
Ecco ormai trascorsa una settimana da quando il mondo agricolo ha preso ad esprimere chiaramente e nei fatti la sua rabbia: rabbia di una professione diventata quasi impraticabile, in crollo sotto la brutalità degli sconvolgimenti ecologici che si annunciano e sotto asfissianti vincoli economici, normativi, amministrativi e tecnologici.
Mentre i blocchi continuano un po’ ovunque, presentiamo alcune posizioni circa la presente situazione espresse dal punto di vista dei Sollevamenti della Terra.
Siamo un movimento composto da abitanti delle città e delle campagne, ecologisti/e e contadini/e già installati/e sulla terra o in procinto di installarsi. Rifiutiamo la polarizzazione che alcuni cercano di creare tra questi mondi. Abbiamo fatto della difesa della terra e dell’acqua – strumenti di lavoro degli agricoltori e degli ambienti di produzione alimentare – il principio e il punto di ancoraggio della nostra azione. Da anni ci mobilitiamo contro i grandi progetti di artificializzazione che li devastano, contro i complessi industriali che li avvelenano e li monopolizzano. Saremo chiari/e: l’attuale movimento, nella sua eterogeneità, è stato questa volta avviato e ampiamente sostenuto da forze diverse dalle nostre; con obiettivi dichiarati che a volte divergono dai nostri, che altre volte ci vedono assolutamente d’accordo. In ogni caso, quando sono iniziati i primi blocchi, noi dei diversi comitati locali abbiamo aderito ad alcuni di esse e ad alcune azioni. Siamo andati/e a incontrare i/le contadini/e e gli/le agricoltori mobilitati/e, abbiamo parlato con i nostri compagni di diverse organizzazioni contadine per comprendere la loro analisi della situazione. Noi stessi ci siamo ritrovati nel dignitoso moto di rabbia di chi rifiuta di rassegnarsi alla propria estinzione.
Possiamo solo rallegrarci del fatto che oggi la maggioranza degli agricoltori/trici blocchi il paese. Certo è un peccato che, nei negoziati col governo, essi/esse siano rappresentati/e dalla FNSEA e dai padroni dell’agroindustria, per di più in un momento in cui i/le dirigenti del sindacato di maggioranza non vengono solo copiosamente fischiati/e in alcuni dei blocchi, ma non riescono nemmeno più a trattenere le loro basi. Molte persone presenti nei blocchi organizzati non sono sindacalizzate e non si sentono rappresentate dalla FNSEA.
“Due terzi delle imprese agricole non hanno, in termini economici, alcuna ragione di esistere. Siamo d’accordo per ridurre il numero degli agricoltori” Michel Debatisse, segretario generale della FNSEA, 1968
Nato nel dopoguerra, questo sindacato egemone sostiene da decenni lo sviluppo del sistema agroindustriale, in cogestione con lo Stato. È questo sistema che mette una corda al collo dei contadini/e, che li/le sfrutta per alimentare i propri profitti e che alla fine li/le spinge a indebitarsi per espandersi al fine di rimanere competitivi/e o scomparire. Nel 1968, Michel Debatisse, allora segretario generale della FNSEA, prima di diventarne il presidente, dichiarò [1]: “Due terzi delle aziende agricole non hanno, in termini economici, alcun motivo di esistere. Siamo d’accordo per ridurre il numero degli agricoltori.” Missione più che riuscita: il numero degli/delle agricoltori/trici e dei/delle lavoratori/trici agricoli/e è passato da 6,3 milioni nel 1946 a 750.000 nell’ultimo censimento del 2020. Mentre il numero dei trattori nelle nostre campagne è aumentato di circa il 1000%, il numero delle aziende agricole è diminuito del 70% e quello dei lavoratori agricoli dell’82%. In altre parole, più di 4 lavoratori su 5 hanno abbandonato il lavoro agricolo in un periodo di soli quattro decenni, tra il 1954 e il 1997. E la lenta emorragia continua ancora oggi…
Mentre la dimensione media di un’azienda agricola in Francia (nel 2020) è di 69 ettari, quella di Arnaud Rousseau, attuale direttore della FNSEA, ex intermediario e commerciante sfornato da una business school, ammonta a 700 ettari, senza contare il fatto che egli sia a capo di una quindicina di imprese, holding e aziende agricole, nonché presidente del consiglio di amministrazione del gruppo industriale e finanziario Avril (Isio4, Lesieur, Matines, Puget, ecc.), direttore generale della Biogaz du Multien,una società di metanizzazione, amministratore della Saipol, leader francese nella trasformazione dei semi in olio, o ancora presidente del consiglio di amministrazione di Sofiprotéol…
Per i dirigenti della FNSEA, così come per i leader delle più grandi cooperative agricole – abbondantemente rappresentate dalla “Fédé” e dai suoi satelliti – è la grande abbuffata [1]: il reddito medio mensile delle dieci persone più pagate nel 2020 all’interno della cooperativa Eureden ammonta a 11.500 €.
I redditi medi dei contadini sventolati sui palcoscenici e il mito dell’unità organica del mondo agricolo mascherano una disparità di reddito sconcertante e violente disuguaglianze socio-economiche che non possono più essere dissimulate: i margini dei piccoli produttori continuano a erodersi mentre i profitti dei complessi agroindustriali esplodono.
Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), la percentuale del prezzo di vendita destinata agli agricoltori è scesa dal 40% nel 1910 al 7% nel 1997. E questo ovunque, nel mondo. Dal 2001 al 2022, i distributori e le aziende agroalimentari del settore lattiero e caseario hanno visto il loro margine lievitare rispettivamente del 188% e del 64%, sebbene quello dei produttori vada stagnando, quando non sia semplicemente negativo.
Uno fra i motivi che spingono il mondo agricolo a bloccare le autostrade, a svuotare bottiglie di latte al Carrefour (Epinal-Jeuxey), a bloccare le fabbriche Lactalis (Domfront, Saint-Florent-le-Vieil, ecc.), ad arare un parcheggio (Clermont-l’Hérault), a bloccare il porto di La Rochelle, a svuotare i camion provenienti dall’estero, a spargere liquame su una prefettura (Agen), a mettere sottosopra un McDonald’s (Agens), ad uscire da un supermercato con i carrelli pieni(Chasseneuil-du-Poitou), è che i gruppi industriali intermediari sia a monte (fornitori, venditori di prodotti agricoli e attrezzature, aziende di semenze industriali, venditori di fertilizzanti, pesticidi e alimenti…) che a valle (cooperative di raccolta e distribuzione come Lactalis, la grande distribuzione industriale e agroalimentare come Leclerc…) dei settori che strutturano il complesso agroindustriale, li spossessano dei prodotti del loro lavoro.
È questa spoliazione del valore aggiunto organizzata dalla catena dei settori industriali che spiega come, oggi, senza le sovvenzioni che svolgono un ruolo perverso di stampelle del sistema (oltre ad avvantaggiare i più grandi) il 50% di coltivatori/trici e allevatori/trici avrebbe un conto negativo ante imposte: per i bovini da latte, il guadagno totale calcolato al di fuori dei sussidi, il quale si aggirava intorno a una media di 396 € per ettaro tra il 1993 e il 1997, è diventato negativo alla fine degli anni 2010 (-16 € per ettaro in media), mentre il numero di agricoltori presi in considerazione dalla Rete Informativa Contabile Agraria del settore è passata in questo periodo da 134.000 a 74.000 [2]…
Gli accordi internazionali di libero scambio (denunciati dalla Confédération paysanne e dalla Coordination rurale), oltre a mettere in competizione i contadini di tutto il mondo, hanno anche accelerato queste depredazioni economiche. Sappiamo bene che, oggi, quando si parla di “liberalizzazione”, di “aumento di competitività” o di “ammodernamento” delle strutture, significa che aziende agricole scompariranno, che la policoltura associata ad allevamento (rappresentata attualmente solo dall’11% delle aziende agricole) diminuirà, lasciando solo un deserto verde di monocolture industriali guidate da agricoltori/trici alla guida di strutture sempre più indebitate e sempre meno in controllo di uno strumenti di lavoro e di un conto bancario che finisce per appartenere solo ai creditori.
Il riscontro è senza appello: meno agricoltori/trici ci sono, meno riescono a guadagnarsi da vivere, a meno che non espandano continuamente la loro superficie agricola, divorando i/le loro vicini/e In queste condizioni, “diventare un manager d’impresa”, come promette la FNSEA, è in realtà ritrovarsi nella stessa situazione di un autista Uber che si è indebitato fino al collo per acquistare il suo veicolo, quando dipende da un unico committente per eseguire la sua attività… A questo aggiungiamo la brutalità del cambiamento climatico (fenomeni meteorologici estremi, siccità, incendi, inondazioni, ecc.), le perturbazioni ecologiche che portano alla moltiplicazione di malattie emergenti e epizootiche e la professione diventa allora quasi impossibile, invivibile, tanta e tale è l’instabilità.
Se ci solleviamo, è in gran parte contro le devastazioni di questo complesso agroindustriale, con il ricordo vivido delle aziende agricole delle nostre famiglie che abbiamo visto scomparire e con l’acuta consapevolezza della profondità delle difficoltà che incontriamo nel nostro cammino d’installazione. Sono queste industrie e le mega-corporazioni d’accaparramento che le accompagnano – inghiottendo la terra e le fattorie circostanti, accelerando la trasformazione in marche della produzione agricola e così uccidendo, silenziosamente, il mondo contadino. Sono queste industrie che abbiamo preso di mira nelle nostre azioni fin dall’inizio del nostro movimento: e non la classe contadina.
Se affermiamo che la liquidazione economica e sociale del mondo contadino e la distruzione degli ambienti di vita sono strettamente correlate – le aziende agricole scompaiono allo stesso ritmo degli uccelli dei campi e il complesso agroindustriale stringe la sua morsa mentre il riscaldamento globale accelera – non ci facciamo certo sfuggire gli effetti deleteri di una certa ecologia industriale, manageriale e tecnocratica. La gestione dell’agricoltura secondo norme ambientali e sanitarie è quindi assolutamente ambigua. Incapace di tutelare realmente la salute delle popolazioni e degli ambienti di vita, essa ha soprattutto costituito, dietro buone intenzioni, un nuovo vettore di industrializzazione delle aziende agricole. Gli investimenti colossali richiesti dagli aggiornamenti normativi nel corso degli anni hanno ovunque accelerato il processo di concentrazione delle strutture, la loro burocratizzazione a suon di controlli permanenti e la perdita di senso del mestiere.
Ci rifiutiamo di separare la questione ecologica dalla questione sociale, o di farne una questione di cittadini consum-attori responsabili, di cambiamenti nelle pratiche individuali o di “transizioni personali”. È impossibile esigere da un allevatore intrappolato in un settore iper-integrato che faccia un’improvvisa sterzata e che si sottragga da un modo di produzione industriale, così come è vergognoso chiedere che milioni di persone strutturalmente dipendenti dagli aiuti alimentari inizino a “consumare biologico e locale”. Né vogliamo ridurre la necessaria svolta ecologica del lavoro della terra a una questione di “regolamenti” o di “un insieme di norme”: la salvezza non arriverà rafforzando il controllo delle burocrazie sulle pratiche contadine. Nessun cambiamento strutturale arriverà finché non allenteremo la morsa dei vincoli economici e tecnocratici che gravano sulle nostre vite: e possiamo liberarcene solo attraverso la lotta.
Pur non avendo lezioni da impartire agli agricoltori/trici né false promesse da rivolgere loro, l’esperienza delle nostre lotte a fianco dei/delle contadini/e – che si tratti di contrastare grandi progetti, inutili e imposti, come i mega bacini, o di riappropriarsi dei frutti dell’accaparramento delle terre – ci ha offerto alcune certezze che guidano le nostre scommesse strategiche.
L’ecologia sarà contadina e popolare oppure non sarà. I contadini scompariranno insieme alla sicurezza alimentare delle popolazioni e ai nostri ultimi margini di autonomia di fronte ai complessi industriali, se non sorgerà un vasto movimento sociale che, di fronte al loro accaparramento ed alla loro distruzione, miri a riappropriarsi delle terre. E scompariranno se non abbattiamo le barriere (trattati di libero scambio, deregolamentazione dei prezzi, influenza monopolistica dell’industria agroalimentare e degli ipermercati sui consumi delle famiglie…) che sigillano la presa del mercato sulle nostre vite e sull’agricoltura, se non blocchiamo la corsa a capofitto tecno-soluzionista (il trittico biotecnologie genetiche / robotizzazione / digitalizzazione), se i principali megaprogetti della ristrutturazione del modello agroindustriale non verranno neutralizzati, se non troviamo le leve adeguate di socializzazione dell’alimentazione che permettano insieme di garantire il reddito dei produttori e il diritto universale al cibo.
Crediamo anche nella fecondità e nel potere delle alleanze estemporanee. In un momento in cui la FNSEA cerca di riprendere il controllo del movimento – in particolare rimuovendo da alcuni blocchi tutto ciò che non assomiglia ad un agricoltore “sindacalizzato” dei loro, crediamo che la svolta possa venire dall’incontro tra gli/le agricoltori/trici mobilitati/e e le altre frange del movimento sociale ed ecologico che si sono sollevate negli ultimi anni contro le politiche economiche predatorie del governo. Il “corporativismo” è sempre stato il fondamento dell’impotenza contadina. Proprio come la separazione dai mezzi di sussistenza agricoli ha spesso segnato la sconfitta dei/delle lavoratori/trici.
Forse è giunto il momento di abbattere qualche muro – continuando a rafforzare alcuni blocchi, andando incontro al movimento di chi ancora, in questi blocchi, non ci ha messo piede, proseguendo nei prossimi mesi le lotte comuni tra abitanti dei territori e lavoratori/trici della terra.
[2] Dati presi da Atelier paysan, Observations sur les technologies agricoles, « Une production agricole ne valorisant quasiment plus le travail ».