Recensione del libro di Tim Jackson “Post Growth: Life After Capitalism” (John Wiley and Sons Ltd, 2021), pubblicata in inglese su goodreads.
Tim Jackson è un rinomato economista britannico e professore all’Università di Surrey. Nel suo libro “Post-Growth: Life After Capitalism”, esplora le implicazioni filosofiche e pratiche di un sistema che vada oltre la dipendenza dalla crescita economica, analizzandone i dilemmi etici e le sfide concrete. Affronta la crisi del capitalismo, esaminando il rapporto tra crescita illimitata e benessere umano, delineando una prospettiva post-capitalista basata su limiti sostenibili e prosperità multidimensionale. Attraverso una critica radicale del paradigma economico attuale, Jackson offre una prospettiva illuminante sul futuro della società e dell’economia globale.
All’inizio del libro, l’autore chiarisce come l’imperativo della crescita nel nostro attuale sistema economico sia intrinseco al capitalismo stesso, sia come paradigma per l’organizzazione dell’ economia che come cultura dominante. Ponendo il profitto come principale motivazione per le persone ad investire, il capitalismo implica un “assunto comportamentale” riguardante l’idea che l’unico modo per far lavorare le persone e produrre è creare l’aspettativa di un profitto. Questo, a sua volta, crea una netta divisione di classe tra coloro che guadagnano il loro sostentamento tramite il proprio lavoro salariato e coloro che guadagnano reddito dal profitto, dal “surplus value” prodotto dai lavoratori. Mentre Jackson riconosce la funzione del capitalismo come un mito culturale mirato a fornire un senso di continuità e certezza nelle nostre vite, egli auspica una nuova, migliore storia per il futuro, anziché una che “minacci il nostro senso di significato e metta a rischio il nostro benessere collettivo”.
Una nuova storia sulla natura umana, ci dice Jackson, deve avere una comprensione più matura dei nostri limiti. Il capitalismo implica presupposti comportamentali e naturali con una concezione di limiti irrazionale, ci dice Jackson, un po’ come un uomo immaturo che pensa di poter conquistare il mondo. Il mito di una crescita infinita e disaccoppiata non è altro che una negazione dei limiti che tutti intuitivamente conosciamo: “È il fallimento nel delineare correttamente ciò che è limitato e ciò che non lo è che sta alla base delle difficoltà del capitalismo”. Questa negazione dei limiti è perfettamente incarnata dall’attuale aumento nel numero di persone che credono in una “crescita verde” e delle politiche di crescita sostenibile, che rifiutano la stessa nozione di limite per il bene della promessa distopica di un’espansione infinita alimentata tecnologicamente.
A questo punto, Jackson tocca una sfumatura interessante. Cosa significa dire che il capitalismo fraintende il significato della nozione di ‘limite’? Come già menzionato, ciò che è insostenibile è pensare che gli esseri umani abbiano opportunità di crescita e miglioramento materialmente illimitate. Tuttavia, riconoscere questa linea di ragionamento difettosa all’interno dell’ideologia capitalistica non significa cancellare completamente la possibilità del concetto di ‘infinito’ o ‘illimitato’. Cosa può essere sostenibilmente ed eticamente illimitato, allora? Jackson attinge qui a una lunga tradizione di pensatori che incoraggiano gli esseri umani a raggiungere il loro pieno potenziale come esseri umani finiti: il desiderio di essere creativi e superare le nostre limitazioni fisiche è prezioso e “ci ha servito bene attraverso numerose fasi dell’evoluzione umana”. Così, cita Rousseau: “Il mondo reale ha i suoi limiti. Il mondo dell’immaginazione è senza limiti”. Mentre Rousseau affronta il dilemma dato da una realtà che non corrisponde alle aspettative proponendo di limitare le aspettative riguardo alla vita stessa, Jackson propone l’arte dell’adattarsi come possibile risposta, un concetto che sarà cruciale per qualsiasi filosofia di post-crescita. Possiamo adattarci e riconoscere che, mentre il mondo è materialmente limitato, “applicare la nostra ingegnosità illimitata e la nostra immaginazione senza limiti nell’adattarsi al mondo reale è la base per un impegno creativo senza fine”. “I limiti sono il passaggio verso l’illimitato”, dice, echeggiando le parole di Wendell Berry: “I limiti umani e terreni, correttamente compresi […] non sono confini, ma piuttosto stimoli alla completezza delle relazioni e al significato”.
Questa filosofia dei limiti porta a una nuova concezione della prosperità. Jackson inizia il capitolo 4 con una interessante rassegna della letteratura riguardante felicità, prosperità e benessere. Inizia analizzando la teoria della felicità sottesa al nostro sistema economico. L’economia utilitaristica nacque con Bentham e Mill come “ardita” mossa che sfidava l’ingiusta autorità morale e dittatoriale della chiesa: invece di concetti come ‘ordine naturale’ e ‘legge naturale’, Bentham sostiene che uno Stato avrebbe dovuto perseguire ‘la massima felicità per il maggior numero di persone’. Mill comprese questo tentativo di democratizzare etica e moralità e iniziò a lavorare su una nuova teoria della felicità, in cui utilità equivale a felicità. Con un singolare salto di argomentazioni, l’utilità venne poi intesa come valore e, infine, denaro. Il denaro diventa quindi un surrogato della felicità, che guida l’operato dei nostri governi. Qui, meriti all’autore per l’empatia umanamente rivolta a J.S.M. come persona piuttosto che come economista razionalista. Segue la storia delle sue idee insieme ai cambiamenti nella sua vita. Intrappolato in sentimenti di malinconia che lo accompagneranno fino alla fine dei suoi giorni, Mill confessa nel suo diario che “solo coloro che hanno la mente concentrata su un altro obiettivo diverso dalla propria felicità sono felici; sulla felicità degli altri, sull’avanzamento dell’umanità, seguito non come un mezzo, ma come un fine ideale in sé. Mirando quindi a qualcos’altro, trovano la felicità lungo il cammino”. L’autore decostruisce questa “contorta giustificazione” dei fallimenti del calcolo della felicità di Mill come un modo per il filosofo di convincersi della validità del progetto utilitaristico. Questo è poi dimostrato da un altro passaggio della sua autobiografia quando, dopo la pubblicazione del suo trattato, confessa ancora di essere profondamente infelice, e analizza ciò come conseguenza di un’infanzia priva di amore. “Nei nostri progetti per migliorare le vicende umane, abbiamo trascurato gli esseri umani”. Jackson afferma che questi passaggi sono indizi dei fallimenti dell’idea utilitaristica di felicità di Mill come obiettivo economico semplice e unidimensionale che può essere calcolato con precisione. “Né il perseguimento della felicità né il perseguimento del denaro ci offrono una guida affidabile per quello che potremmo chiamare ‘la buona vita’”. Alla fine della sua vita, ispirato dalle poesie di Wordsworth, Mill si renderà conto che la vera consolazione e guarigione provengono dall’empatia, dalla trascendenza, dalla poesia e dall’amore. Come ci dicono i monoteismi, l’amore è infinito e senza limiti.
Jackson propone quindi una concezione multidimensionale della prosperità basata su una filosofia dei limiti. Attingendo ad Amartya Sen, sostiene che la prosperità dipende dalle ‘capabilities’ che le persone nella società hanno bisogno di sviluppare per fiorire o funzionare bene, con il progresso sociale che costituisce il miglioramento continuo di tali capacità. Aristotele coniò la parola benessere (eudaimonia), che è in sintonia con tale definizione di prosperità: “l’attività dell’anima in accordo con la virtù”. La virtù (areté) qui è concepita come ‘funzionare bene’, eccellere nel essere umano entro le proprie capacità, ‘essere bravi a essere buoni’. La virtù di Aristotele è profondamente radicata anche in una filosofia dei limiti. Ogni virtù è affiancata da due vizi, che potremmo vedere come estremi, cioè carenza ed eccesso. Per avere una ‘buona vita’ (essere felici), gli esseri umani devono far fiorire le proprie capacità senza superare i loro limiti. Questo, sostiene Jackson, è in netto contrasto con l’economia utilitaristica, che ha portato a equiparare il PIL alla felicità: troppo poco denaro e mezzi materiali significano carenza, troppo significa eccesso. La prosperità, in altre parole, è salute: un equilibrio sano dei vizi umani centrato sul fiorire delle nostre capacità al massimo. Qui, è piuttosto interessante il collegamento con Hannah Arendt, poiché teorizza che l’unica possibilità di contentezza che gli esseri umani hanno è “il ciclo prescritto di esaurimento doloroso e rigenerazione piacevole”.
Che cosa significa “prosperità in termini di salute”, in pratica? Tim propone un quadro che colloca 5 dimensioni di benessere interdipendenti: vivere una vita sana significa avere equilibrio spirituale, sessuale, sociale, fisiologico e psicologico, in modi diversi per ognuno. Questo modello è profondamente anti-capitalista, poiché sostiene che “la virtù sta nel raggiungere un equilibrio appropriato all’interno e tra ciascuna di queste dimensioni – escludendo efficacemente la possibilità che la buona vita possa essere raggiunta in modo significativo attraverso un accumulo continuo di ricchezza materiale o finanziaria”. Cita fonti della psicologia, medicina ed antropologia per sostenere questo modello.
Qui, un altro bel collegamento: entropia. Jackson approfondisce cosa significhi per gli esseri umani vivere bene e raggiungere un’eccellente funzionalità. La salute, fisicamente, è un equilibrio tra dieta, fisiologia e scelte, che implica la creazione e il mantenimento dell’ordine. Tuttavia, l’entropia – la tendenza al disordine – aumenta sempre. Nonostante ciò, Jackson sostiene che da questo caos può emergere un ordine straordinario: la complessità umana, l’equilibrio sottile su cui si basa la nostra salute, la nostra creatività e la capacità di provare emozioni intense. Nel sesto capitolo, Jackson spiega come il capitalismo stimoli il desiderio umano senza limiti, costruendo una società basata sulla competizione, violenza e dipendenza. Propone il concetto di “flow” come uno dei risultati desiderabili possibili in una società post-capitalista. Ritorna sull’analisi di Hannah Arendt sulla differenza tra lavoro e attività umana, sostenendo che il lavoro debba tornare al centro della società umana, nonostante la prospettiva di un mondo post-crescita. Afferma che il capitalismo sfrutta un tipo di lavoro che schiavizza sia i consumatori che i lavoratori, contraddicendo il concetto di costruzione di un mondo umano duraturo sottolineato dalla Arendt.
In complesso, il libro offre un viaggio affascinante attraverso complessi aspetti etici e filosofici, concreti ma anche materiali, necessari per capire le discussioni riguardo al post-capitalismo, alla post-crescita ed alla decrescita.