Di Roberto Talenti *
Nel 2023 ho avuto modo di frequentare un corso, tra i tanti organizzati in Italia, rivolto a giovani appassionati di politica. Ricordo che a maggio era prevista una lezione dal titolo “nel mondo delle transizioni”. Il tema trattato? La transizione ecologica. L’insegnante? Un professore di Environmental and Energy Policy presso la Luiss, direttore esecutivo della Fondazione ENI Enrico Mattei.
La lezione dura due ore. Dieci minuti dei quali destinati a domande dal pubblico. La narrativa è semplice. Che il clima stia cambiando non lo mette in discussione nessuno, ma non c’è niente di cui preoccuparsi. Investimenti mirati in tecnologie innovative ci permetteranno, se non di mitigare il cambiamento climatico, quantomeno di adattarci ad esso. Il professore continua, ‘non che dalla tecnologia possiamo aspettarci miracoli. Io metterei una firma adesso per stabilizzarci a 2,7 gradi centigradi sopra la media preindustriale’. Io rimango sconvolto.
Spero di non essere frainteso. Come dottorando in diritto del cambiamento climatico sono ben consapevole della difficoltà di mitigare l’incremento delle temperature globali. Così come sono consapevole dell’importanza di investire in piani di adattamento ai cambiamenti climatici. Quello che mi ha sconvolto, però, era la tranquillità con cui il professore dell’illustre università italiana, direttore dell’istituto di ricerca che fa capo all’Ente Nazionale Idrocarburi, ci parlava della possibilità di arrivare a 2,7 gradi. Non sarebbe preciso dire che ne parlava con rassegnazione. Piuttosto, ne parlava con leggerezza. La leggerezza con cui si parla di qualcosa di tanto inevitabile quanto irrilevante.
Finalmente arrivano i dieci minuti destinati a domande. Alzo subito la mano. Mi viene data la parola. Dopo aver esposto i dettagli della catastrofe ambientale, sociale ed economica che deriverebbe da un aumento delle temperature come quello previsto dal professore, e dopo aver notato che è facile mantenere un tono ottimista quando si appartiene ad una classe abbiente di un paese industrializzato e non si ha davanti un orizzonte di vita di sessant’anni, ho sottolineato che il futuro non è ancora scritto. Ho chiesto al professore: “se Lei stesso ammette che in uno scenario business-as-usual si arriverà necessariamente a 2,7 gradi sopra la media preindustriale, non sta sostanzialmente riconoscendo che il sistema attuale è insostenibile? Non dovrebbe essere questo il motivo per cambiare? D’altronde, cosa mai ci potrebbe essere di più importante della salute degli ecosistemi globali? Se appoggiarci ad un modello orientato verso una continua espansione di produzione e consumo ci condanna alla catastrofe, non dovremmo puntare verso un modello di decrescita?”.
La risposta del professore è lapidaria. “Non succederà. Di decrescita non ne parla più nessuno da quando la cosa fu proposta anni fa da un signore francese. Abbi più fiducia nelle possibilità della tecnologia”. Ovviamente, essendo passato più di un anno, le parole pronunciate potrebbero non essere state esattamente queste. Ma sul loro contenuto non ho dubbi. Ho rimuginato un’infinità di volte su quelle due ore di “lezione” a Roma. Ed ho raccontato a molti amici e colleghi di questa esperienza, di cui poi ricordo altri tre elementi.
In primis, ricordo che non ebbi possibilità di replica. Ed effettivamente, considerando che avevo preso già molto tempo, la cosa non era sorprendente. Quindi non potei dire al professore che in realtà la ricerca sul tema della decrescita è da anni in forte espansione, che c’erano già state state, fino ad allora, otto conferenze internazionali sulla decrescita, e che solo pochi giorni prima, a maggio 2023, si era tenuta presso il Parlamento Europeo la prima Beyond Growth Conference.
La seconda cosa che ricordo è che in seguito alla risposta del tutto prevedibile del professore, pensai ad una celebre frase di Fredric Jameson, teorico politico. Secondo Jameson ‘è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo’. Fino ad allora, avevo sempre pensato che la frase di Jameson facesse riferimento ad una sorta di inconscio collettivo, che non permette alle masse di identificare una narrativa anticapitalista coerente ed unificante. Ma di fronte alla risposta del professore, vidi la frase di Jameson materializzarsi in una forma distinta. Messo di fronte all’evidenza che il modello economico attuale ci porta verso la catastrofe, non solo una massa incoerente di persone, ma anche un singolo individuo, tra l’altro professore universitario, non riesce ad accettare l’idea di un cambiamento di rotta. Meglio andare avanti così. Poi magari i modelli scientifici esistenti si sbagliano, e la tecnologia, in qualche modo ci salva tutti. Una scommessa al quanto azzardata. Ancor più se consideriamo che ad essere in ballo è la stabilità del sistema atmosferico globale, da cui dipendono temperature, precipitazioni, presenza di ghiacci e ghiacciai, sopravvivenza di habitat, di specie animali e vegetali, ecosistemi. La capacità di intere comunità umane di avere accesso all’acqua, di poter produrre cibo. La possibilità di non essere spazzati via da un uragano, non essere travolti da alluvioni, non essere sommersi dall’innalzarsi del livello del mare.
La terza cosa che ricordo è di essere stato avvolto da un senso di grande solitudine e frustrazione. Solitudine perché, nella platea di ascoltatori, ero tra i pochi ad aver rifiutato in blocco le parole del professore. I più avevano abbracciato con sollievo la rassicurante narrativa eco-modernista, e potevano godersi il pranzo senza pensare alle terribili ingiustizie che l’attuale modello di produzione e consumo nel quale siamo immersi dissemina nel mondo. E frustrazione, perché in quanto persona a cui sta a cuore il benessere del pianeta, così come delle specie animali e vegetali che lo popolano, mi è sembrato che tutti i miei sforzi, da ricercatore così come da attivista, fossero stati (e sarebbero stati, di lì in avanti) vani. E se il professore avesse avuto ragione? Ma se, alla fine dei conti, di decrescita ne parlassero solo in pochi e fossimo davvero condannati a restare su questo treno in perenne accelerazione, che è l’economia globale, destinati a schiantarci contro la barriera dei 2.7 gradi? E a questo punto perché continuare a lavorare per cercare di migliorare la situazione? E a questo punto perché lavorare in generale? Per costruirmi un futuro su quale pianeta?
Ebbene, non voglio concludere questo trafiletto con un tono di rassegnato pessimismo. Ma neanche ci si aspetti un lieto fine hollywoodiano. Proverò ad attenermi a pochi fatti o, per lo meno, al modo in cui io li ho percepiti. È passato più di un anno da quella lezione a Roma. In questi mesi ho continuato la mia ricerca in tema di diritto del cambiamento climatico, ed ho trovato una quantità sempre maggiore di studi che dimostrano l’impossibilità di contenere l’aumento delle temperature globali rimanendo entro limiti di sicurezza senza abbandonare il paradigma della crescita eterna. Questo paradigma richiede di essere abbandonato, tra l’altro, non solo per la pressione che pone direttamente sul clima, ma anche per il suo impatto complessivo sugli ecosistemi globali, essendo basato sull’estrazione, trasformazione e annichilimento delle risorse, che vengono convertite in rifiuti, causando la perdita di habitat e biodiversità.
Qui però arriva la prima buona notizia. Antropologi come Jason Hickel, politologi come Giacomo D’Alisa, economisti come Giorgios Kallis, e filosofe come Nancy Fraser ed Ingrid Robeyns, ormai da tempo spiegano come l’abbandono di un modello economico basato su una cresciuta perpetua di estrazione, produzione, e consumo di risorse, apporterebbe benefici significativi, non solo in termini ambientali, ma anche in termini di benessere e sviluppo umano. Infatti, il sistema economico attuale punta ad una crescita indefinita di sé stesso, assolutamente non curante né della qualità né delle conseguenze di tale crescita. Ne consegue che, nella società attuale, il successo individuale si misura in base a quanto si riesce a produrre, e la felicità viene identificata nell’atto di possedere o, ancor peggio, consumare. Le conseguenze in termini di crescente tasso di ansia, insonnia, burnout o depressione sono ben note. Una società orientata verso la decrescita, invece, si focalizza sul benessere umano. L’individuo non è produttore o consumatore. È membro di una comunità ed eventualmente di una famiglia, alle quali può dedicare parte considerevole del suo tempo. Le ore di lavoro sono inferiori, quindi i posti di lavoro aumentano. I guadagni monetari sono inferiori, così come i consumi di beni e servizi non essenziali. Il tempo dedicato ad attività riproduttive e di cura aumenta, così come i legami e le relazioni significative.
La prima buona notizia, quindi, è che un’alternativa al sistema attuale è stata già ideata. E diversamente da quanto affermano i suoi detrattori, non implica un ritorno degli umani alle caverne, ma piuttosto un riequilibrio dei rapporti tra esseri umani, ambiente e lavoro.
La seconda buona notizia è che nell’ultimo anno ho potuto constatare che effettivamente, almeno su un punto, il professore della Luiss si sbagliava. La comunità di ricercatori ed attivisti che si dedicano al tema della decrescita è tutt’altro che minuta. Al contrario. Il movimento della decrescita è in forte crescita. A dicembre 2023 si è tenuto, presso il Parlamento Europeo, un follow-up della beyond-growth Conference. Questa esperienza si è ripetuta nei parlamenti di nazioni quali Italia, Austria, Danimarca, ed Irlanda. Nello stesso periodo di tempo si sono tenute due conferenze internazionali sulla decrescita, una a Zagabria, in Croazia, nel 2023, ed una a Pontevedra, in Spagna, nel 2024.
A Pontevedra hanno partecipato, di persona, più di 1200 tra professori e ricercatori provenienti da università, enti di ricerca, e organizzazioni non governative di tutto il mondo. Per quanto mi riguarda, questa è stata la prima occasione in cui ho potuto presenziare ad una conferenza sulla decrescita, comunicare i risultati delle mie ricerche e, soprattutto, rendermi conto direttamente di quanto sia ricca, eterogenea e vibrante la comunità che si dedica con passione a questo tema.
Ho pensato a come mi ero sentito poco più di un anno fa a Roma. Solo e frustrato. Pontevedra mi ha fatto capire che non ero solo. Anche se, forse, un po’ di frustrazione rimane. Per lo meno quella causata dal silenzio di buona parte dei nostri rappresentanti politici (italiani ed europei) sul tema nonostante il rumore del mondo della ricerca. Ma come disse una persona di grande statura quasi cento anni fa, forse bisognerebbe rimanere pessimisti dell’intelletto, ed ottimisti della volontà. Un cambiamento è possibile. Il futuro non è ancora scritto.
(*) Roberto Talenti è dottorando in diritto agroambientale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, già membro della Commissione Mondiale di Diritto Ambientale dell’IUCN e della Società Internazionale di Economia Ecologica.