Alcuni appunti di Daniela Passeri sulla conferenza di Bruxelles di cui avevamo scritto il 3 novembre.
L’incontro A Just Transition Beyond Growth? (Una transizione giusta oltre la crescita? Bruxelles, 8 e 9 dicembre 2022) è stato un momento di confronto tra la Confederazione europea dei sindacati, alcuni parlamentari europei, organizzazioni ecologiste ed esponenti/accademici della comunità della decrescita per imbastire un dialogo e “inventare una società che funziona anche senza la crescita”, come ha detto l’europarlamentare e co-presidente dei Verdi Philippe Lambert.
Organizzato da ETUI, l’istituto di ricerca dell’European Trade Union Confederation insieme con EEB (European Environmental Bureau), GEF (Green European Foundation), IEE (Institute for European Studies) e il Syndicat European Trade Union, l’incontro è stato un evento preparatorio della conferenza Beyond Growth (Oltre la crescita) in programma per il 15-17 maggio 2023 al Parlamento europeo su iniziativa di 21 parlamentari europei di 4 diversi gruppi politici (Gue, Verdi, S&D, Renew) con il supporto di 40 organizzazioni.
Non è la prima volta che la decrescita varca la soglia del Parlamento europeo: nel 2018 fu organizzata una conferenza dal titolo Post-Growth (www.postgrowth2018.eu). Oggi la locuzione beyond growth viene giudicata la più efficace dal punto di vista comunicativo.
Al di là dei distinguo nominalisti, l’incontro (qui la registrazione dei 2 giorni) è stato molto partecipato (più di 250 i presenti, oltre 1000 le persone che hanno seguito on-line) in particolare da un gran numero di giovani.
Malgrado la narrativa della crescita domini il discorso politico, affrontare il tema della decrescita oggi, anche a livello di Commissione europea, non “danneggia la reputazione politica” (Lambert). Persino i falchi della crescita sembrano sulla difensiva, il presidente francese Macron ha dichiarato di recente che “è finita l’abbondanza”, mentre tra i fautori del Green Deal, che pure è una strategia di crescita, c’è chi si è sbilanciato a proporre una “riduzione” dei consumi.
Tuttavia, persino tra i Verdi, non c’è unanimità nell’ammettere che la crescita è finita.
L’intervento di Jason Hickel (docente a ICTA-UAB, Barcellona, autore di Siamo ancora in tempo) ha messo in evidenza la necessità di organizzare una lotta per una transizione giusta, lotta che i movimenti ambientalisti non da soli possono vincere anche per la mancanza di una solida analisi di classe. Ed è qui che il movimento sindacale diventa essenziale, per il suo peso politico, il potere di sciopero e la capacità di interpretare le istanze dei lavoratori. Tuttavia, è necessario che il movimento sindacale cambi tattica: l’essersi allineato al capitale nel credere che la crescita avrebbe risolto ogni problema, ha neutralizzato il suo potere.
La proposta di una società della decrescita è quella di democratizzare la produzione attorno agli interessi e ai bisogni degli esseri umani e dell’ecologia, per smettere di alimentare con il nostro lavoro, le nostre vite e le risorse degli ecosistemi, l’accumulazione del capitale anche quando si tratta di produzioni socialmente non necessarie ed ecologicamente distruttive. Nessun paese è sulla buona strada della mitigazione delle emissioni climalteranti perché la spirale della crescita farà aumentare la produzione e dunque i flussi di energia e di materia. Per questo i paesi industrializzati devono decrescere e trasformare le loro economie per garantire il lavoro, il reddito universale e l’accesso ai servizi pubblici.
La visione decrescista è stata ribadita nella seconda plenaria da Giorgos Kallis (docente a IEST Barcellona, collettivo Research & Degrowth) che ha parlato della necessità di una “progettazione” della società senza crescita non da parte delle élite, ma grazie ad un processo di riforme “non riformiste” (per riprendere André Gorz) che possono avvenire come sono avvenuti i grandi cambiamenti del passato, cioè attraverso la mobilitazione di gruppi sociali che si organizzano, protestano, rivendicano per arrivare ad avere espressione politica e ottenere il cambiamento. Tutto questo non può avvenire senza il sindacato.
La necessità di un’alleanza tra sindacato e organizzazioni ambientaliste è stata auspicata da EEB (intervento di Patrizia Heidegger, tra gli autori del paper Reimaging work for a just transition) sulla base di un lavoro comune e la possibilità/volontà di trovare accordi su modalità concrete di tassazione, redistribuzione, tetto massimo alle emissioni, e per analogia, ad altri materiali che possano creare un modello economico alternativo che generi occupazione e benessere.
Per alcune realtà (Friends of the Earth Europe, Wellbeing economic Alliance, ecc) convergenza è la parola d’ordine al fine di realizzare alleanze tattiche dove creare spazi di apprendimento e di proposta, anche in vista delle prossime elezioni europee. Ma niente di tutto questo è possibile senza i giovani (chiaro il riferimento a FFF, che non erano presenti).
Per il segretario confederale di ETUC, Ludovic Voet “non ci sono integralisti della crescita” nel movimento sindacale, visto che la crescita, dopo i Trent’anni gloriosi, ha alimentato sempre più il capitale e il profitto (dal 35% al 45% in pochi decenni) e sempre meno i salari e la qualità della vita. Voet si è detto aperto alla discussione sulla decrescita o sulla post-crescita.
Per il sindacato, alla lotta storica alla disuguaglianza si è affiancata la lotta per la protezione del clima, visto che l’impronta di carbonio della parte più ricca della popolazione è enormemente maggiore rispetto a quella della parte meno abbiente, dunque il vero problema è l’iper-consumo dei più ricchi che non si può ridurre soltanto con l’innovazione tecnologica e l’efficienza energetica.
Anche le industrie più energivore vanno decarbonizzate, senza però rischiare che le produzioni vengano delocalizzate. Ogni passo verso la decarbonizzazione è una sfida sociale in quanto lo stesso Green Deal, di cui condividiamo l’obiettivo finale, è però è costruito su meccanismi di mercato e segnali di prezzo. Quello di cui abbiamo bisogno, secondo Voet, sono politiche socio-ecologiche che contemperino le due dimensioni, e non mere misure di compensazione sociale delle politiche ecologiche.
L’esempio della politica industriale per l’automobile, che impone la produzione dei soli veicoli elettrici a partire dal 2035, se da un punto di vista della protezione del clima ha senso, tuttavia determina una diminuzione dei posti di lavoro, rischia di accelerare le disuguaglianze in Europa tra est e ovest e di creare desertificazione in alcune regioni. Il sindacato ha l’obbligo di porre la questione della protezione sociale in questa trasformazione industriale per la creazione di buoni posti di lavoro nel rispetto dei limiti del pianeta.
Nel panel sull’energia (Towards a post-growth energy path) sono emerse diverse criticità che caratterizzano il dibattito attuale sulla transizione alle energie rinnovabili. Interessante l’intervento di Natalia Magnani, sociologa dell’università di Trento, che studia le modalità con cui le fonti rinnovabili vengono costruite nei territori, spesso senza la consultazione della popolazione locale con un metodo tecnocratico. Le Comunità energetiche, invece, sono potenzialmente uno strumento adatto ad una transizione giusta e democratica, tuttavia occorre vigilare affinché i cittadini possano continuare ad avere il controllo sulla proprietà degli impianti, altrimenti si genera social washing.
Il tema è stato affrontato anche da Nick Meyen (EEB), tra gli autori del report Why Energy Justice, che tratta il problema della concentrazione di capitale e di potere nel settore dell’energia che non opera nella direzione di una vera transizione giusta che diventa tale solo se si affrontano, tra gli altri, i temi della povertà energetica e della riduzione del 50% dei consumi.