recensione di Paolo Cacciari
11 marzo 2021
È stato da poco pubblicato un ponderoso rapporto, The Economics of Biodiversity, che il Cancelliere dello Scacchiere del Regno Unito, vale a dire il ministero delle finanze del governo inglese, commissionò due anni fa al prestigioso professor Partha Sarathi Dasguptan, economista indiano, del St. John’s College dell’università di Cambridge, sui costi economici e i rischi della perdita di biodiversità, nonché sulle misure da mettere in atto per tentare di evitarli. Si tratta di un documento importante, specie in preparazione dell’appuntamento di settembre della Conferenza Onu sulla biodiversità a New York, frutto di una rassegna transdisciplinare che mette assieme la letteratura scientifica in vari campi delle conoscenze biogeofisiche, economiche e sociali, con un ricco apparato di casi studio locali.
Il raffronto più immediato che viene alla mente è con i rapporti del Club di Roma sui limiti che la crescita economica permanente avrebbe presto o tardi incontrato scontrandosi con una biosfera dai confini definiti. O con l’altrettanto famoso rapporto della commissione sull’ambiente dell’Onu coordinata da Gro Harlem Brundtland , Il futuro di noi tutti, del 1987, che inventò il sintagma di successo “sviluppo sostenibile”, poi variamente interpretato e degradato fino a prendere il significato di “crescita rigenerativa” implementata dai nuovi driver Green Economy, Smart Economy, Circular Economy, ecc. Ovvero, nuovi modelli di business, piuttosto che nuovi paradigmi di civiltà.
Oggi conosciamo con precisione i drammatici contorni del disastro di un sistema economico, sociale, istituzionale e culturale che non ha saputo fare i conti (impatti, esternalità, perturbazioni) con la fisiologia della biosfera. Da anni chi governa il mondo cerca di trovare la quadra tra economia ed ecologia. Si cercano di “integrare” – come affermano l’Agenda 2030 dell’Onu e il Green Deal europeo – le ragioni dell’ambiente con quelle della prosperità delle popolazioni, sempre misurata in valori monetari. Ma da cinquant’anni di politiche e negoziati internazionali sul clima, sulle foreste, sugli oceani e sulla biodiversità si registrano più fallimenti che successi. Lo certifica il Dasgupta Review, precisando che non si tratta solo del risultato dell’«inefficacia allocativa nell’uso delle risorse» del sistema economico di mercato, ma di un «fallimento collettivo globale nel raggiungere la sostenibilità». Evidentemente, vi è qualche cosa di più profondo che non funziona nella natura umana che andrebbe indagato.
Partiamo quindi dalle conclusioni del lavoro di Partha Sarathi Dasguptan, dando per acquisita la incredibile mole di evidenze scientifiche a disposizione sulla rottura dei processi vitali naturali che mettono a rischio la vita nostra e dei nostri discendenti. La pandemia, infatti, avrebbe dovuto porre la parola definitiva su come il macrorganismo vivente, la biosfera, la Terra, può reagire – immunizzarsi – a fronte dell’invadenza delle attività antropiche. Non c’è solo il surriscaldamento dell’atmosfera. I “confini planetari” – per dirla con le ricerche di Rockström, allegate alla Revew – sono stati superati in più punti. Basti pensare che gli esseri umani con i loro animali di allevamento costituiscono il 96% della massa di tutti i mammiferi. «Solo il 4% è tutto il resto: dagli elefanti ai tassi, dalle alci alle scimmie». Su 8 milioni di specie animali e vegetali note, un milione è a rischio di estinzione. È stata chiamala La sesta estinzione di massa (Richard Leakey, Roger Lewin, Bollati Boringhieri, 1995) o biocidio, ma le cose non cambiano. La preservazione della fertilità del suolo, la protezione della aree naturali, il rewilding (rinselvaticamento) dei terreni degradati, il “leave it in the ground” (rinunciare all’estrazione delle risorse minerarie), fino ai grandi progetti di rinaturalizzazione come The Great Wall (la fantastica muraglia verde sub-sahariana da tempo progettata, ma priva di finanziamenti) non sembrano rientrare nelle politiche di investimento delle grandi potenze economiche, nemmeno in epoca di retorica Green New Deal.
La Dasgupta Review, dopo aver speso centinaia di pagine per invitare i governi a ricongiungere l’economia all’ecologia, indicando specifiche metodologie da seguire, conclude che «la biodiversità non ha solo un valore strumentale [fornire beni e servizi ai processi trasformativi economici], ha anche un valore intrinseco – forse morale. Ogni sensibilità umana si arricchisce quando riconosciamo di essere incorporati nella natura. Separare la natura dal ragionamento economico implica che consideriamo noi stessi esterni alla natura. La colpa non è dell’economia; sta nel modo in cui abbiamo scelto di praticarla». Come dire: «la natura è più di un semplice bene economico», c’è una dimensione imprescindibile spirituale, oltre che biologica, che va riscoperta: «l’attaccamento emotivo, lo stupore e la meraviglia per il mondo naturale». Nel mondo contemporaneo, invece, sembra quasi che: «L’ipotesi di fondo è che l’umanità sarà in grado, a lungo termine, di liberarsi dalla biosfera». Una distopia trans e post umana che va molto di moda e che guarda con entusiastico spreco alla colonizzazione di Marte, così come alla geoingegneria di moderni dottor Frankenstein impegnati a imbiancare le nuvole per filtrare i raggi solari, fertilizzare gli oceani per imprigionare la CO2, catturare e iniettare nel sottosuolo l’anidride carbonica. Qualsiasi cosa pur di non mettere in discussione consumi, comportamenti e gli stili di vita progrediti, nel senso di “affluenti” nella società opulneta.
Ma non è di questo che si occupa il lavoro del prof. Dasgupta, per consapevole scelta: «La Review ha sviluppato l’economia della biodiversità osservando la natura in termini antropocentrici e razionali. Si tratta di un punto di vista del tutto ristretto, ma giustificabile. Infatti – si giustifica il prof Desgupta – se la natura dovesse essere protetta e promossa perché apprezzata unicamente per i suoi usi per noi umani [fornitura di beni e servizi], avremmo ragioni ancora più forti per proteggerla se riconoscessimo che ha un valore intrinseco». Cioè, un valore non commensurabile e non negoziabile. Del resto – ricorda la Review a riprova del suo punto di vista utilitaristico – non è bastato che gli indù riconoscessero il fiume Gange come sacro per preservarlo dagli inquinamenti, servirebbe anche un corretto ragionamento economico, una “lente antropocentrica”.
La Economics of Biodiversity – a me sembra – deve un tributo alla teoria bioeconomica fondata da Georgescu-Roegen (The Entropy Law and the Economic, 1971). La scommessa dell’Economia della biodiversità (da non confondere con le tecnologie di produzione che tentano di usare biomasse “no food” come materie prime “riproducibili” e “riciclabili”) parte dal riconoscimento della dipendenza di ogni nostro bene – così come di “ogni respiro” – dal buon funzionamento dei processi naturali. Per cui «la rigenerazione della biosfera è la chiave per la sostenibilità dell’impresa umana». Di più. Dobbiamo imparare a riconoscere che «ognuno di noi è un elemento di molti ecosistemi». Siamo incorporati nella natura e a nostra volta conteniamo svariati ecosistemi microbici. «La biosfera è il più grande ecosistema di cui siamo solo un elemento: è la nostra casa». Essendo al suo interno, dipendiamo interamente da essa, non solo per la sopravvivenza e per il nostro benessere. «I beni e i servizi della natura sono le fondamenta delle nostre economie». Quindi serve una teoria e una pratica economica che prenda in considerazione per intero i “servizi di fornitura” multifunzionali, gratuitamente e generosamente offerti dalla biosfera. Non solo cibo, acqua, fibre, legname, medicine… ma anche manutenzione e regolazione del clima, della fertilità dei suoli e della pescosità dei mari, dell’idrologia, dell’impollinazione… Le correlazioni tra sistemi di vita umana e salute degli ecosistemi sono fitti e infiniti. Pensiamo alla dieta, all’urbanizzazione, alle catene di approvvigionamento delle materie prime, alle pratiche agricole, alle consuetudini comunitarie e ai diritti di proprietà… fino all’influenza che ha l’autonomia delle donne sul controllo della fertilità e quindi sulla demografia.
L’Economia della biodiversità di Partha Sarathi Dasguptan non sposa una prospettiva esplicitamente post-capitalista, tantomeno anticapitalista. Ma va oltre quella idea di “sostenibilità debole”, che cerca di conciliare le contrapposte esigenze delle imprese e degli stati di crescita dei fatturati e del Pil con la preservazione della natura. La proposta della Economics of Biodiversity si presenta però diversa da quella tradizionale della Environmental Economics. Qui i vincoli ecosistemici sono assunti come incomprimibili, mentre nelle tradizionali politiche ambientali sono flessibili e negoziabili. L’esempio più noto è la creazione di mercati dei permessi di inquinamento, tramite i meccanismi “cap and trade”: stabilisci un limite alle emissioni e attribuisci loro un valore commerciale.È proprio su questi meccanismi di mercato (crediti di carbonio) inventati dal protocollo di Kioto nel lontano 1997 che ancora si concentrano le trattative in vista della 26 Cop sul clima di Glasgow in programma a novembre.
La Review di Dasgupta si presenta come una sfida diretta, sul loro terreno, ai tanti riformatori del sistema che, da Dovos a Bruxelles, da Biden a Ursula von der Leyen, lavorano al “Great Reset of Capitalism”, alla trasformazione etica ed ecologica del mercato. La soluzione della difficile equazione tra valori economici e naturali passa per la ridefinizione della nozione di ricchezza, di progresso, oltre che di economia. «Il Pil è un indice fuorviante di successo economico, perché non contempla il patrimonio naturale» che viene utilizzato nei cicli produttivi. Così come il sistema dei prezzi di mercato non riesce a includere tutti i valori d’uso generati dai servizi ecosistemici, quali i benefici per la salute, la soddisfazione e il piacere del vivere in un ambiente sano. L’economia della biodiversità suggerisce di elaborare una misura di “inclusive wealth” che riesca a calcolare la redditività sociale transgenerazionale della biosfera. Vale a dire «incorporare il capitale naturale e i servizi ecosistemici nelle metriche economiche», in modo da «comprendere e apprezzare il posto dei servizi della natura nelle nostre economie». La “ricchezza inclusiva” (comprensiva) verrebbe quindi registrata da prezzi (“accounting price”) capaci di contabilizzare il valore del patrimonio naturale . Si tratta però di un’arma pericolosissima a doppio taglio. Se da una parte, infatti, la contabilizzazione del “capitale naturale” offre molti vantaggi, poiché: «consente di comprendere e apprezzare il posto dei servizi della natura nelle nostre economie, compresi i servizi che di solito vengono trascurati; permette di tracciare nel tempo i movimenti di capitale naturale (prerequisito per la valutazione della sostenibilità); offre un modo per stimare l’impatto delle politiche sul capitale naturale», d’altra parte può ingenerare la rischiosa idea che gli stock e i servizi ecosistemici (che gli economisti hanno chiamato “capitale naturale”) possano essere equiparati, sostituiti, commercializzati come si fa con gli altri “capitali” e con gli altri mezzi e strumenti antropici impiegati nei processi produttivi. Tramite il denaro, astratto “equivalente generale”, la natura viene sussunta nel mercato e dissoluta nell’accelerazione dell’entropia del sistema (“eutanasia antropica”, come la chiamava Enzo Tiezzi). Breve è il passo verso la finanziarizzazione del “capitale naturale”. La ong Re:common (Biodiversity offsetting. Licenza di distruggere) ha documentato vari casi di multinazionali che riescono a mettere a valore estese aree in paesi in via di sviluppo attraverso la stima del valore monetario della loro biodiversità, così da poter “compensare” lo sfruttamento minerario e agricolo di altri territori. Una nuova forma di colonialismo del carbonio. Scendere con il ragionamento sul terreno economico-monetario significa consegnare la natura alla logica del mercato; offrire argomentazioni falsi all’idea che “pagando si può”. La valutazione monetaria (valorizzazione) non è uno strumento neutro, porta a conseguenze pratiche e ha implicazioni etiche.
Insomma l’Economia della biodiversità di Partha Sarathi Dasguptan prospetta un’uscita solo a metà dal mercato dove, comunque, le comunità locali, da una parte, e gli stati, dall’altra, dovrebbero giocare un grande rinnovato ruolo. Le “communidades” dovrebbero riuscire a gestire direttamente gli ecosistemi locali geograficamente definiti attraverso meccanismi virtuosi di cooperazione e autogoverno. I secondi, i governi, dovrebbero mettere in campo sistemi di tracciabilità delle catene di approvvigionamento, promuovere tecnologie basate sulla natura, imporre tasse e sovvenzioni, divieti e regolazioni, sistemi trasparenti di compensazione… tali da cambiare i modelli di produzione e di consumo. L’obiettivo dovrebbe essere quello di «Lasciare in pace la natura in modo che sia in grado di prosperare».