Pubblichiamo l’intervento del nostro socio Marino Ruzzenenti (del Centro di storia dell’ambiente della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia) all’incontro tenutosi a Brescia il 31 marzo u.s., in preparazione della Conferenza internazionale di Zagabria, 29 agosto – 2 Settembre 2023
Mi sembra molto bello aprire questo incontro parlando di quattro persone che rappresentano le primarie e fondamentali fonti del pensiero ecologista, allo stesso tempo scientifico e militante, italiano, i cui archivi ospitiamo in questa Fondazione Luigi Micheletti, grazie alla preveggenza sapiente di Pier Paolo Poggio.
Aggiungo anche che molto si è fatto per valorizzare i contributi offerti da Laura Conti, anche grazie alla ricorrenza, due anni fa, del centenario della sua nascita, e da Giorgio Nebbia, con il convegno che abbiamo tenuto qui nell’autunno scorso e con la creazione del suo archivio digitale. Molto è invece ancora da fare per Carla Ravaioli e Virginio Bettini, a cui, cercherò di dedicare qualche parola in più.
Nebbia, Conti e Ravaioli sono pressoché coetanei, nati nella prima metà degli anni Venti del secolo scorso, solo Bettini è di una generazione successiva, ma precoce nell’interessarsi ancora ventenne ai temi ecologici. Ravaioli, invece, da femminista giunge all’ecologia agli inizi degli anni Ottanta, mentre Nebbia, da merceologo, fin dagli anni Cinquanta aveva acquisito un interesse ai temi del rapporto tra economia e risorse naturali. Il percorso di Laura Conti, coevo a quello di Nebbia, è all’inizio segnato dalla sua professione di medico igienista e dall’attenzione al condizionamento dei fattori ambientali per lo stato di salute degli umani.
In questa comunicazione cercherò di evidenziare i tratti che a mio parere li accomunano e che possono interessarci per la nostra riflessione.
- Un approccio critico alla scienza ed alla tecnologia
Il terreno su cui si muovono è indubbiamente quello della ricerca scientifica e delle innovazioni tecnologiche, ma senza alcun cedimento allo scientismo, ancorati sempre alla critica della presunta neutralità della scienza. Per tutti si può citare Giorgio Nebbia, che pure era un cultore ammirato delle invenzioni ed innovazioni tecnologiche (quelle buone!):
l’affermazione, che talvolta si sente ripetere, che i guasti prodotti dalla tecnica nell’ambiente naturale possono essere rimediati con l’uso di altra tecnica non è giustificata da un esame oggettivo delle risorse, finite, disponibili sulla Terra, in quanto l’applicazione di altra tecnica non può risolversi che con una ulteriore sottrazione di risorse all’ambiente, in una spirale senza fine. Questo trionfalismo sembra ispirato al desiderio di non cambiare, ma anzi di rafforzare, gli attuali modelli di progresso materiale per raggiungere i quali mezzi tecnici sono posseduti dai paesi avanzati. I progressi tecnologici devono perciò essere attentamente e criticamente valutati sulla base degli effetti che determinano sull’ambiente. (G. Nebbia, Per una visione cristiana dell’ecologia, apparso in sette puntate su “Il Popolo”, tra settembre e ottobre 1971, in L. Piccioni, Chiesa ed ecologia 1970-1972. Un dialogo interrotto, “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 38, 1 ottobre 2018, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, p. 119. https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/category/numero-38/).
- Visione complessa della crisi ecologica
Altro tratto che li accumunava la convinzione che la crisi ecologica fosse dovuta ad una profonda frattura intervenuta in particolare con la rivoluzione industriale e con la chimica di sintesi tra tecnica e natura, tra economia ed ecologia, sia sul versante del prelievo smodato di risorse materiali ed energetiche, spesso non rinnovabili, sia sul versante dell’immissione dissennata nelle matrici ambientali di rifiuti, scorie, sostanze tossiche non biodegradabili e dannose ai viventi, umanità compresa. Questa concezione complessa della crisi ecologica può insegnarci molto nel presente, in cui si sta imponendo, al contrario, una visione riduzionista, circoscritta alla questione climatica e alle sole emissioni climalteranti, dunque ai fossili come fonti energetiche. Di tutto il resto non sembra interessare più nulla, neppure ai nuovi movimenti, purtroppo. Cosicché viene ignorato il fatto che i fossili siano anche materia prima per due settori devastanti per l’ambiente, come la petrolchimica, che produce plastiche e fibre sintetiche, e l’agroindustria, per la sintesi dell’ammoniaca atmosferica finalizzata ai fertilizzanti a base di nitrati. Come non sembra preoccupare più nulla il depauperamento delle risorse del Pianeta (cui anche la transizione energetica contribuirà non poco, se si vuole proseguire con la crescita esponenziale ed infinita dell’economia) e gli inquinanti tossici per l’ambiente naturale e per la vita umana che l’economia sversa nei territori, procurando quello che fino a qualche anno fa i movimenti definivano “ecocidio” o quella che già oltre quindici anni fa fu definita “pandemia silenziosa”, provocata da sostanze chimiche di sintesi e isotopi radioattivi responsabili di varie forme di tumore, di mutazioni, di interferenze con il sistema endocrino, di trasmissione transplacentare di patologie per via epigenetica, del latte materno contaminato, ecc. ecc.
Questo, del riduzionismo ecologico in corso, è un tema centrale, a mio parere, da discutere e che, tra l’altro, pone qualche interrogativo anche sulla sorprendente fortuna mass-mediatica di Greta. Al sistema, che intende proseguire nella corsa folle ed autodistruttiva della “crescita” infinita dell’economia, del Pil e dei profitti, forse serve l’allarme sui fossili, non tanto per i problemi climatici che semmai intende governare con politiche di mitigazione ed adattamento, ma perché è consapevole che i fossili sono destinati a finire e soprattutto, per varie ragioni, geopolitiche e tecniche, ad aumentare di prezzo. Dunque, bisogna che i governi investano enormi risorse pubbliche per la cosiddetta “transizione energetica” (vedi Stati Uniti, Cina e in misura minore Ue, ecc.): in questo quadro l’allarme climatico è un buon viatico per spingere l’opinione pubblica, quindi i governi, in questa direzione, rimuovendo ancora una volta la complessità e profondità della crisi ecologica e facendo accettare tecnologie, come il nucleare, forse un po’ meno influenti sul clima, ma durevolmente devastanti per la futura vivibilità sul Pianeta.
A questo proposito, da alcuni anni, mi corre spesso il pensiero a Michelangelo Bolognini, grande epidemiologo di Medicina democratica, della scuola di Giulio A. Maccacaro, scomparso prematuramente nel 2012. (Notizie biografiche di Michelangelo Bolognini si possono vedere qui: https://www.medicinademocratica.org/wp/?p=356;http://www.medicinademocratica.org/article.php3?id_article=402). Bolognini, nell’ultimo periodo della sua esistenza, ci assillava con una preoccupazione che, francamente, a me allora sembrava eccessiva: riteneva che l’unica concreta eredità della Conferenza di Rio sull’ambiente, quella che inaugurava in grande stile il Greenwashing grazie al ruolo centrale che vi ebbe Stephan Schmidheiny, il magnate dell’Eternit, ovvero l’emergenza climatica, sancita dal successivo protocollo di Kyoto e periodiche Cop annesse, fosse una colossale opera di distrazione dai veri temi della crisi ecologica. Vivevo quella sua insistenza come una sorta di ossessione immotivata: ma alla luce dell’evolversi dei fatti, oggi Michelangelo mi appare un profeta inascoltato, come anche i nostri “magnifici quattro” che qui stiamo evocando.
- Una lettura di Marx dal punto di vista ecologico.
I “nostri” sono stati dei buoni studiosi del pensiero di Marx, con tratti originali comuni.
Il primo consiste in una netta presa di distanza dai “marxismi” all’epoca dominanti che consideravano lo sviluppo tecnologico ed economico un valore indiscusso, da rilanciare cambiando profondamente i rapporti di produzione e di classe. Qui mi piace riportare due citazioni di Carla Ravaioli. L’una, profetica, del 1982 prima della caduta del muro:
Su queste basi si tratta allora di rivedere le motivazioni al rifiuto dei due modelli di vita dominanti. I quali sono ambedue inaccettabili non benché diversissimi, ma perché, al di là delle diversità, sono in realtà molto simili. Non perché l’Occidente garantisce le libertà civili all’interno però di una insuperabile divisione classista, mentre all’Est la dittatura che ha abolito le classi nega la libertà; ma perché una vera libertà e anche una vera giustizia non sono possibili dovunque la società ruota esclusivamente attorno al dato economico, dovunque le categorie produttive sono il referente primario di ogni valore collettivo e individuale, dovunque il «quanto» [è] assunto come alibi e succedaneo del «quale» […] Il consumismo che, certo in misura finora assai più limitata e in modi assai meno sofisticati che in Occidente, ma certo con altrettanta capacità di suggestione, va rapidamente prendendo piede anche nei paesi del «socialismo reale», sta a dimostrarlo. (C. Ravaioli, Il quanto e il quale. La cultura del mutamento, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 234).
La seconda, quasi vent’anni dopo, una sorta di invettiva contro l’economicismo ed il produttivismo:
Il primo «valore» da rifiutare dovrebbe essere il dominio incontrastato della ragione economica […]; il secondo «valore» da rifiutare, d’altronde in piena coerenza col primo, è la «quantità» come misura di tutto il «positivo», su cui fonda la propria certezza la crescita produttiva illimitata, assunta come prioritario obiettivo economico […]; il terzo «valore» che le sinistre non possono permettersi di accettare è «il danaro come religione» […]; quarto «valore» da condannare senza riserve é quello espresso nel popolare aforisma che afferma: «il tempo è danaro», […] perché il tempo è una categoria al cui interno si colloca il vivere umano in tutte le sue espressioni; quinto «valore» non più accettabile è l’illusione della inesauribilità della natura, e la presunzione del diritto umano al suo illimitato sfruttamento, […] «valore» su cui si è impiantata e continua a reggersi l’evoluzione economica degli ultimi due secoli, e di cui (occorre ripeterlo e senza mezzi termini) anche le sinistre sono state pienamente e irresponsabilmente partecipi; sesto «valore» da abiurare è quella tenacissima fede nel progresso che pervade l’intera nostra cultura, e che le sinistre hanno abbracciato nel modo più acritico, […] in gran parte identificato con l’evoluzione scientifica e tecnologica. (C. Ravaioli, B. Trentin, Processo alla crescita. Ambiente, occupazione, giustizia sociale nel mondo neoliberista, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 199-203)
Inoltre, la lettura di Marx si soffermò in particolare sui Manoscritti economici-filosofici. A questo proposito ricorda Nebbia, citando un passo dei Manoscrittti, che, di fronte all’economia politica che governa ed orienta i bisogni umani al servizio del guadagno e del profitto dei capitalisti, il giovane Marx individua la soluzione nel “comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano. Questo comunismo … è la vera risoluzione dell’antagonismo fra la natura e l’uomo, fra l’uomo e l’uomo, … tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie… L’essenza umana della natura esiste soltanto per l’uomo sociale; infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza umana… Dunque la società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera risurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura”. (G. Nebbia, Sui Manoscritti economico-filosofici, in “Capitalismo Natura Socialismo”, n 4, settembre-dicembre 1994, pp.109-116)
Un ultimo tema ricorrente è l’interesse al dibattito tra Malthus e Marx a proposito della questione demografico in relazione ai limiti naturali dell’economia. La questione viene affrontata in particolare da Laura Conti nel suo Che cos’è l’ecologia (L. Conti, Che cos’è l’ecologia. Capitale, lavoro e ambiente, Mazzotta, Milano 1977, pp. 115-117) e soprattutto nel suo testo più importante, Questo Pianeta (in particolare il cap. 11, M. Alcune verifiche: Malthus e Darwin: la scoperta dell’esuberanza delle nascite consente l’interpretazione darwiniana dell’evoluzione biologica[…]. Il legame tra Malthus e Darwin sfugge a Marx, anche perché lo stesso Malthus deduce da un’osservazione scientifica una norma sociale, in L. Conti, Questo Pianeta, Editori Riuniti, Roma 1988, II edizione, pp. 118-129) La lettura di quel confronto permette loro, da un canto, di non sottovalutare il problema dell’aumento della popolazione umana rispetto ai limiti ed al degrado delle risorse naturali, addirittura peggiorati dai tempi di Malthus, ma, dall’altro, di mantenere fermo il punto che il problema rinvia al necessario superamento delle profonde diseguaglianze tra le popolazioni privilegiate che godono dell’abbondanza e dello spreco e quelle che invece soffrono la fame e l’indigenza, che fu una delle principali argomentazioni della critica di Marx a Malthus..
- Rapporto stretto tra crisi ecologica e crisi sociale
E qui veniamo al punto decisivo del nesso inscindibile tra crisi ecologica e crisi sociale, riconducibili ad un’unica crisi che vede nel sistema capitalistico la prima fondamentale causa, ancorché non la sola, senza rimuovere la quale non è possibile avviare un processo di pacificazione tra gli umani e con la natura. E’ il filo conduttore della ricerca scientifica, delle elaborazioni, dell’opera di divulgazione e della militanza di tutti e quattro, nel corso della loro esistenza.
Perciò, da ecologisti, rimane centrale il loro interesse per il movimento operaio, con il quale ritengono ineludibile il confronto. Abbiamo già citato l’eloquente sottotitolo del libro sull’ecologia di Laura Conti del 1977, Capitale, lavoro e ambiente. Ricordiamo le innumerevoli volte in cui Giorgio Nebbia ricorda quel “periodo in cui una parte del mondo operaio e della sinistra anticipò lotte, soprattutto per la salute in fabbrica, che erano «ecologiche» anche se non venivano chiamate così” (a questo proposito si veda il dossier su L’ambientalismo operaio, in “Altronovecento. Ambiente tecnica società”, n. 46 https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/lambientalismo-operaio/).
Ammirevole Carla Ravaioli quando testardamente cerca di discutere di ecologia e decrescita con Bruno Trentin, già segretario generale della Cgil, in questa occasione in verità piuttosto sordo, dialogo pubblicato in Processo alla crescita. Ambiente, occupazione, giustizia sociale nel mondo neoliberista, già citato.
Vi è infine un testo di Virginio Bettini pubblicato con Barry Commoner nel 1976 che potremmo considerare esemplare per questo legame tra crisi ecologica e crisi sociale, fin dal titolo, Ecologia e lotte sociali (V. Bettini, B. Commoner, Ecologia e lotte sociali, Feltrinelli, Milano 1976), nel quale il terzo ed ultimo capitolo è significativamente dedicato a Il debito verso la classe operaia. Ebbene facciamo semplicemente parlare Bettini con alcune citazioni di una profondità e chiarezza che le rendono tuttora di assoluta attualità:
La crisi: uomo contro uomo, non uomo e natura. Se si va alle origini di ogni problema ambientale si scopre una realtà fondamentale: alla radice della crisi non sta il modo in cui l’uomo interagisce con la natura, ma il modo in cui gli uomini interagiscono tra loro: cioè per risolvere i problemi ambientali dobbiamo risolvere i problemi della povertà, dell’ingiustizia razziale e della guerra. Il debito con la natura, che è la misura della crisi ambientale, non può essere pagato, persona per persona, con bottiglie riciclate o sane consuetudini ecologiche, ma con l’antica moneta della giustizia sociale; insomma, la pace tra gli uomini deve precedere la pace con la natura. (pp.70-71).
Tra classe operaia e quanti si occupano dei problemi dell’ambiente esistono molti punti di contatto. È giusto quindi che le due esperienze si confrontino, perché la crisi ambientale in Italia, negli Stati Uniti e nel resto del mondo non potrà essere risolta a meno che non si vinca la battaglia per condizioni di lavoro accettabili, con adeguati interventi sanitari e con la realizzazione di giuste misure di sicurezza nelle fabbriche. I problemi dell’ambiente e i problemi della classe operaia marciano quindi di pari passo. Sarebbe un grave errore scinderli. Cerchiamo quindi di collegare quei fili sparsi dell’intricato problema ambientale a tutte quelle esperienze, anche di sfruttamento e di morte, che da tempo si vivono nelle fabbriche. (p. 151)
Lavoratori come cavie. Il lavoratore dell’industria è usato come cavia in alcuni esperimenti che riguardano l’ambiente: i prodotti chimici industriali che lo inquinano hanno una maggiore concentrazione nelle fabbriche e quindi i lavoratori ne sperimentano precocemente gii effetti peggiori.
La pericolosità dei PCB, riconosciuti oggi come problema ambientale di prima grandezza, fu rivelata per la prima volta quando alcuni lavoratori rimasero vittime di una grave malattia cutanea, il cloracne, causata da queste sostanze. Prendiamo anche il caso dell’asbesto, altro grave pericolo per l’ambiente. Tutti respiriamo fibre di asbesto che galleggiano nell’aria dei cantieri edili dove è usato. Assorbite dai polmoni, tali fibre aumentano l’incidenza del cancro. Questo effetto venne scoperto 30-40 anni fa, quando nei lavoratori addetti alla trasformazione dell’asbesto si osservò un’alta incidenza del cancro polmonare. (p. 183)
Il numero delle sostanze chimiche cui siamo esposti è valutato intorno al mezzo milione. Il problema coinvolge sia la fabbrica sia l’ambiente esterno. L’astratta visione ecologica cui fino ad oggi ci ha abituato l’ideologia del potere ha contribuito a tenere separati i due problemi. Dobbiamo invece riconoscere che è la fabbrica il nucleo reale sul quale si deve condurre una responsabile battaglia ecologica e che lo scontro reale avviene proprio “sulla fabbrica.”
Il processo produttivo ha assunto ormai dimensioni tali da far diventare nocivo anche l’ambiente che lo circonda. L’unica risposta possibile è l’individuazione delle responsabilità della logica produttiva capitalistica e la sempre maggiore responsabilizzazione della classe operaia come naturale e storico antagonista del sistema capitalistico. (p. 200)
Alleanza vitale per la sopravvivenza. Queste sono alcune delle questioni vitali sollevate di fronte alla necessità di migliorare l’ambiente e le condizioni di lavoro. Ora è il caso di domandarci per il bene di chi funziona l’industria: se funziona per migliorare la produttività ed aumentare i margini di profitto, degradando quindi l’ambiente e danneggiando la salute dell’operaio, il sistema raggiungerà presto una situazione di collasso; se il sistema economico-industriale però saldasse il debito con l’ambiente e con i lavoratori potrebbe ben presto dichiarare bancarotta. Stando cosi le cose è rischioso affidarsi alle direzioni aziendali per trovare una soluzione; è certo preferibile che la cerchino la classe operaia e il popolo in generale. I lavoratori hanno un’ottima conoscenza dei problemi dell’inquinamento, perché li vivono quotidianamente, ma è necessario che la partecipino a quegli studiosi che intendono informare la popolazione sugli aspetti più gravi della crisi ambientale. Questa alleanza tra scienza e classe operaia rappresenta il primo stadio di un’azione diretta a risolvere la duplice crisi che sta degradando l’ambiente in cui viviamo e quello in cui lavoriamo. Un primo passo, forse, verso la sopravvivenza!(p. 201).
- Decrescita necessaria.
Già agli inizi degli anni Settanta, Giorgio Nebbia, in vista della sua partecipazione alla Conferenza dell’Onu di Stoccolma in rappresentanza dl Vaticano, con il saggio, precedentemente citato, pubblicato verso la fine dell’anno precedente su “Il Popolo”, il quotidiano della Democrazia Cristiana, Per una visione cristiana dell’ecologia. Aveva affrontato tutti i temi oggi sul tappeto con lucidità di analisi e lungimiranza di proposte, compreso quello dei limiti della crescita e della “de-crescita”: “… è indispensabile imporre ai paesi che già hanno molto una revisione critica della gerarchia dei bisogni di beni materiali e un’azione di disciplina nei consumi e di freno nello sfruttamento delle risorse naturali. Da varie parti si pensa di ridurre eventualmente a zero il tasso di accrescimento della produzione a livello mondiale, il che richiede una operazione di de‐sviluppo dei paesi ricchi per consentire ai paesi poveri di raggiungere un adeguato livello di sviluppo”. Quindi “de-sviluppo”, ovvero decrescita, che, riprendendo la parola chiave dell’Humanae vitae, denominerà anche continenza, trasferendola dalla sfera sessuale a quella della produzione e dei consumi, con l’“invito alla continenza nel possesso, continenza che, anche se impopolare, pure è così squisitamente cristiana e che costituisce la vera guida per una nuova saggezza ecologica”.
Anche Virginio Bettini, concludendo un’intervista rilasciata ad Elena Davigo nel 2011, riprende quel periodo magico della “primavera ecologica”, in cui lui dirigeva la neonata rivista, poi di Legambiente, “Nuova ecologia”, individuandolo come anticipatore della teoria della decrescita di Serge Laotuche:
In tutta questa dinamica della crisi, del problema del debito, le tematiche ambientali non entrano mai. Non so se si è resa conto … Assolutamente, qui come altrove, si continua a ribadire il concetto della crescita, la crescita, la crescita … ma tu non puoi, non puoi soltanto sviluppare, non puoi crescere in continuità. Il modello della crescita è legato a un certo periodo “x”, poi smette, quello che devi fare è lo sviluppo invece. Sviluppare vuol dire capire, ammettere che esistono dei limiti. Per esempio, oggi la “Nuova Ecologia” starebbe benissimo collegata al gruppo che parla di decrescita, alla Latouche insomma. Sarebbe proprio proposto secondo il modello di Latouche. Quando leggi Latouche e ci trovi alcuni messaggi che negli anni Settanta erano di “Nuova Ecologia”. Se oggi “Nuova Ecologia” non avesse solo la funzione di portavoce di Legambiente si sposterebbe molto più nella posizione latouchiana. Questo è il mio giudizio ultimo. (Virginio Bettini e la nascita di “Nuova Ecologia”, un’intervista di Elena Davigo, Venezia 22 ottobre 2011, in “Altronovecento. Ambiente tecnica società”, n. 43 https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/virginio-bettini-e-la-nascita-di-nuova-ecologia-unintervista/)
Carla Ravaioli, come abbiamo già accennato, da femminista nel 1982 affronta la questione ecologica, focalizzandosi fin da subito sul tema più spinoso, se non indicibile: l’improponibilità del paradigma della crescita infinita: La fine della crescita senza fine è l’eloquente titolo dell’ultimo capitolo del suo Il quanto e il quale, precedentemente citato.
Preso per le corna il limite strutturale e se vogliamo epistemologico dell’economia, con straordinaria pervicacia torna sul tema con un’operazione unica nella pubblicistica nazionale e non solo. Decide di porre i quesiti che le girano in testa da tempo direttamente ai più quotati economisti del mondo, appartenenti alle più diverse scuole. Così, dieci ani dopo, pubblica il risultato di questo lavoro, Il pianeta degli economisti, ovvero l’economia contro il pianeta, titolo che non lascia alcun margine a possibili fraintendimenti: è l’economia, in tutte le sue varianti, il tarlo che sta minando la terra e l’umanità che vi è ospitata (C. Ravaioli, Il pianeta degli economisti, ovvero l’economia contro il pianeta, isedi, Torino 1992. C. Ravaioli, with a contribution by P. Ekins, Economists and the Environment. What the top economists say about the Environment, Zed Books, London 1995).
Dare conto di questo testo è impossibile per la ricchezza e complessità delle argomentazioni. Basti ricordare che innanzitutto pone il tema dell’insensatezza di un sistema che deve sempre produrre crescita, quindi, chiede ai suoi interlocutori se davvero l’economia che pretende di governare il mondo sia una scienza esatta, se alla quantità da rincorrere all’infinito non sia desiderabile contrapporre la qualità da coltivare in decelerazione rispettando i limiti naturali, ed, infine, se il capitalismo sia per sua natura incapace di questa necessaria inversione di rotta per salvare il pianeta e l’umanità.
Elencare gli interlocutori sarebbe pure altrettanto significativo, ma sono ben ventotto, compresi premi Nobel, provenienti dalle più diverse parti del mondo, dagli Usa alla Russia, e dalle diverse scuole; cito a mo’ di esempio alcuni nomi noti: Milton Friedman, caposcuola del neoliberismo duro e puro, John K. Galbraith, neokeynesiano, Nicolao Georgescu-Roegen, teorico della bioeconomia, Juan Martinez-Alier, teorico dell’economia ecologica, e James O’Connor, teorico dell’ecomarxismo. Mi limito a dire che è un testo assolutamente da leggere anche oggi per capire a fondo perché in mezzo secolo, dominato dall’economia e negli ultimi quarant’anni dal neoliberismo, comunque sempre dal mito della crescita, non siamo riusciti a porre rimedio alla crisi ecologica.
Per concludere non rimane che un invito: tornare ad attingere alle fonti di questi grandi maestri e immense maestre se si vuole comprendere in profondità la crisi che stiamo attraversando e le grandi sfide che ci attendono.